martedì 28 dicembre 2010

Mamma li turchi!

Cioè, gli anni Settanta. Sono tornati? Stanno tornando? Si accingono a tornare per inquinare di incubi i nostri sonni innocenti? L’allarme è scattato, il mondo pacifico trema, s’inquieta, si arrabbia: secondo la sensibilità delle sue componenti. Che sono varie, soprattutto per diversificazione economica e, di conseguenza, sociale, e in tanti casi anche politica.
Insomma, i tafferugli, gli scontri, gli episodi di violenza e i graffi causati a certi monumenti-ornamenti della capitale, durante le sfilate originali di martedì 14 dicembre, hanno indotto lo scampanio di questo allarme. Sempre in primo piano per zelo informativo, le televisioni pubbliche e private non cessano di martellare quegli eventi lungo le ventiquattro ore del giorno e per tutti i santi giorni residui del mese in discesa e con prevedibile seguito in quelli del nuovo anno. Quanto alle tonalità dei commenti dominanti, c’è poco da distinguere e sottolineare: fanno un coro unanime di condanna per i “teppisti”, variamente dosata soltanto nel pimento moraleggiante. Vale a dire: tutte le specificità del nostro paesaggio politico sparano la condanna, ma certe posizioni si distinguono per un eccesso di furore che rima preciso con livore: non sorprende che le bocche intente a sciacquarsene le gengive stiano quasi tutte intorno al maestro di violenze variegate, anche se non fragorose: il testé vincitore –compratore della battaglia parlamentare sulla mozione di sfiducia pensata da alcuni simpaticoni ignari delle risorse del Caimano. Scivolando verso il centro e spostandosi un po’ più’ in là i toni sono meno strillanti, ma la condanna solenne non soffre di anemia. Tutti addosso ai black bloc, sovvertitori dell’ordine costituito. E tutti, con sfumature appena sensibili, a recitare solidarietà alle “forze dell’ordine”. Le quali, nell’opinione di troppi campioni del moderatismo incline all’idolatria dell’Ordine con la maiuscola, hanno sempre ragione, qualunque cosa facciano. Anche la più sporca. Come accade, quasi puntualmente, ogni qualvolta s’incontrano con manifestanti un po’ troppo incazzati. Donde la levata di scudi verbali di troppe autorità e soggetti portati all’autoassoluzione smemorata e all’oblio sbarazzino del proprio passato e delle possibili attenuanti dell’ira esplosiva. Dal sindaco ex (s)fascista della capitale al leghista ex rivoluzionario scissionista che occupa il ministero dell’Interno; dai troppi pappagalli arcoriani (Cicchitto Bondi Bonaiuti Lupi Capezzone e altri testoni) al ministro spaziale della Giustizia, è stato tutto un coro di allarmi aizzamenti censure ai magistrati che hanno rimesso in libertà i giovani fermati contro i quali non emerse nessuna imputabile scorrettezza da immediata custodia cautelare. Con un picco di azzardo che inclina al ridicolo: l’invio di ispettori nel presidio giuridico della capitale da parte dell’astrale Alfano. Pochi, e soltanto a sinistra, pur condannando la baldoria scassa-vetrine e brucia-macchine, si son dati pensiero di capire le spinte irate di certa gioventù contro questo Stato non proprio paterno. Sensibilità che manca a troppi politici (professionali o abusivi), e giornalisti al soldo del moderatume sopra non omaggiato. Presso i quali manca una denuncia ampia, documentata, sincera fino alla rotta di collisione con il pestifero conformismo libero-capitalista, i cui crimini mai vengono riconosciuti e bollati per quel che sono. Perché, stringi stringi, questo è il busillis: tanto libero commercio, tantissima libera finanza, condita di liberissima delocalizzazione globalistica (creatura bastarda ma geneticamente incontestabile del capitalismo brado), e un indotto largamente disastroso per tanta parte delle fasce sociali esposte, operai e giovani in testa.
Quando ai giovani si nega il futuro, quando li si costringe alla stasi inerte della famiglia gravitante su modestissime entrate (da salario o da avarissima pensione, spesso di nonni), pensano, i benpensanti del cavolfiore, che se ne debbano e possano stare buoni e tranquilli fino alla improbabile vecchiaia? Eppure è questo il sottinteso di quanto pensano i campioni del liberismo dogmatico, tetragoni all’evidenza dei fatti e misfatti di quel credo applicato alla gestione dello Stato democratico. Un’ autorevole figura di questo campionario, Piero Ottone, nell’editoriale corseresco di sabato 18 (titolo, I diritti e la legge, sovrastato da questo occhiello di un bel rosso-allarme, “La violenza non è mai giustificabile”) recita l’ennesima sintesi replicante del suo pensiero cristallizzato, sbandierando formule seducenti e ottative astrazioni festosamente veleggianti sopra la materiale brutalità degli eventi. Seguiamolo come in un pellegrinaggio penitenziale. Comincia con un altolà rigido come un blocco di marmo sagomato: “C’è da parte di alcuni media – trasmissioni tv e giornali – una certa irresponsabile indulgenza, persino una sorta di giustificazionismo morale e ideologico, nei confronti dei responsabili dei disordini di Roma, che male si conciliano con l’idea di democrazia liberale”. Tanto strazio della Libertà maiuscolata (ma in quali media l’ha letto e ascoltato?) poggerebbe, secondo Ostellino in codesta “tesi di fondo”, che “la classe politica, nella circostanza, si sarebbe arroccata dentro al Palazzo, al sicuro di una ‘zona rossa’ e non avrebbe saputo guardare, oltre a ciò che stava accadendo nelle strade, anche alla maggioranza degli italiani che non manifestano, ma che sono ugualmente depressi e sfiduciati.” Questa “piadina” drogata e abusiva non sarebbe altro che “una versione aggiornata dei ‘compagni che sbagliano’(ma hanno ragione)”. E qui scatta l’impeto indignato del sacerdote della Libertà offesa: “Dire che le parole a giustificazione delle criminali violenze che hanno messo a ferro e fuoco la capitale sono sbagliate è dire poco.” Ripetiamo: ma dove le ha beccate? E cosa bisogna aggiungere a quel “poco”? Presto detto: quelle parole sono anche “pericolose”. E sia detto, precisa don Piero, senza alcuna indulgenza per “questa classe politica”, di cui “si può dire tutto il male possibile”: come fa lui personalmente di persona (per dirla alla Catarella camilleriano) “in ogni suo articolo”. Ma tanto eventuale rigore non giustifica l’accusa a quella scadente congerie “di non saper capire che le ragioni della violenza sono anche quelle della maggioranza degli italiani” (che non perciò vanno a bruciare macchine costose): una tale accusa equivale a “negare la Politica stessa”. La quale Politica (doverosamente incappucciata di maiuscola) “rimane il solo strumento di pacifica composizione delle differenze e dei conflitti”. Una solida barriera, al di là della quale non si fa altro che “spalancare le porte al terrorismo”. Come non capire che la “zona rossa” non intendeva “difendere la classe politica, ma le istituzioni”; difenderle da quei “delinquenti o idioti convinti di fare la rivoluzione spaccando vetrine e bancomat”. Non solo, ma secondo l’editorialista (che qui s’improvvisa indovino) quegli idioti fracassoni erano anche “intenzionati a estendere al Parlamento lo stesso trattamento”. Più o meno come è accaduto con i giovani “che volevano dimostrare pacificamente il loro dissenso e sono stati travolti essi stessi dalla violenza”. A questo punto non rimane che passare alla teoresi. “Manifestare è una libertà liberale inalienabile, un diritto costituzionale”. E fin qui, tutto liscio e cielo sereno. Il quale cielo si intorbida, però, quando si passa a quella “diversa e più complessa definizione” che riguarda “la rivendicazione, da parte di gruppi di ogni categoria sociale, dei propri diritti corporativi, ogni volta che siano toccati dalla politica, con la pretesa che il Parlamento ridiscuta con loro le scelte fatte ad ogni stormire di manifestazione, pena la ‘separazione’ del Paese reale dal Paese legale e il rischio di violenze”. Ed eccoci fuori “dalla democrazia liberale e rappresentativa”, anzi addirittura precipitati “in un surreale pluralismo che rifiuta le regole del Costituzionalismo e ignora le libertà individuali”. Ovvero, per dirla a colori più accesi (dopo un’ovvia censura all’ingenuo Rousseau): “Si finisce, in sostanza, nel permanente assemblearismo di Piazza, nella negazione dell’esito delle libere lezioni, cioè nello svuotamento della sovranità popolare, nel totalitarismo di una supposta ‘volontà generale’ (che è, poi , sempre particolare). Salvo voler rientrare nella democrazia rappresentativa se a vincere le elezioni è la propria parte politica”.
E qui ci scappa un modesto lamento: Homini sumus, non dei. Ovviamente, “quando si ricorre alla violenza, non si parla più di diritti. Si mette in discussione la Legge. Che va rispettata. E’ un fatto che il ‘rivendicazionismo continuo di diritti (o di privilegi?) collettivi e corporativi sia un sintomo di crisi della democrazia rappresentativa”. A chiusura dello sfogo, una lezioncina-monito su questa democrazia, della quale -- scrive, didattico-- “si dovrebbe discutere con proprietà di linguaggio culturale e politico, senza concessioni demagogiche e totalitaristiche, ed evitando di stravolgerne, come invece si fa, i fondamenti stessi”.
Qualche postilla a tanta dottrina ci tenta come un dovere ineludibile. Se la russoviana “volontà generale” si riduce sempre a particolare, come mai lo stesso processo logico-dimagrante non accade alla sua “volontà popolare”? Perché, forse, le appare garantita dal “libero voto”? Bene. Vediamolo questo passe-partout del democratismo liberale. Tanto libero voto appartiene in grandissima e prevalente parte agli strati sociali meno dotati di istruzione, capacità di valutazione politica di persone ed eventi, largamente disponibile al mercato (lo stesso che ha conquistato la striminzita maggioranza al premier, ma più vasto e più facile per il compratore). Durante le elezioni amministrative siciliane nella città di Liotria quel tale mercato prevedeva somme diverse per ogni livello sociale di votante: si citavano cifre che salivano dai 50 euro ai cento e 150. L’eletto fu il sindaco delle grandi aspettative, medico personale del Caimano, ma che finì giudicato e condannato per sperperi e abusi di ogni genere. Centinaia di pubblici amministratori sono di questa sostanza: liberi votanti? Perché no: ma del genere “a qual prezzo!”. Il che mina alla base la pretesa e sottintesa purezza delle radici e dell’humus della decantata democrazia liberale. Rispetto della legge? Non può essere un assoluto: altrimenti dovremmo giustificare i boia nazisti che invocavano quel rispetto. Ma si trattava di una dittatura: sì, ma portata al potere dalla “libera volontà” dei votanti. Si obietterà: le leggi non eque si possono modificare. Certo, ma con quel vizio del particolarismo che il liberale s’illude di evitare. Magari trasferito nel santuario bacato detto Parlamento. E quando mai le democrazie liberali hanno garantito equità a tutte le categorie e fasce sociali? Leggi che il “libero parlamento” ha votato a favore di ceti e consorterie privilegiate (Mammona docente) dovrebbero essere rispettate da quelli soccombenti? A dirlo, in clima di astrazioni teoriche, ci vuol poco; si può recitarlo magari in latino, dura lex, sed lex, sopportarne gli effetti pratici è un tantino più pesante. Planando verso terra, la situazione odierna in Italia e in cento altri Paesi è tale che stupisce come non siano scoppiate rivolte ben più severe che questi scoppi di malumore lesivo di qualche vetrina e bancomat e berline di lusso. Ma, in fondo, la spiegazione del buonumore dei privilegiati sermoneggianti è così ovvia che umilia persino spendere parole per commentarla. Ed è tanto coriacea che non servirebbe nemmeno rinfacciare a quei signori lo scandalo dei loro vantaggi e privilegi, sovente di magnitudo scandalosamente provocatoria. Ma sì, penso ai superstipendi di manager e dirigenti di mille e mille agenzie disparate. E allo scialo di pubblico denaro (cioè, di soldi tolti alle nostre tasche e famiglie) che indigna indagatori pazienti e alacri, come Gian Antonio Stella e Aldo Rizzo: ultima denuncia, la scialo molisano. Che ha dell’incredibile, per la sua vastità, spudoratezza, inerzia delle strutture di controllo. E che dire degli scandali mazzettari di tutti i livelli che vanno emergendo a getto continuo? La storica tangentopoli non è stata uccisa da Mani pulite, si è solo acquattata per qualche pausa coatta e poter riesplodere altrettanto virulenta.
Questa è la realtà della democrazia liberale tanto infiorata dalla teoresi astratta. E dappertutto, anche se l’Italia vi celebra uno dei suoi molti primati negativi. I quali dall’attuale maggioranza sono stati, non combattuti ed evitati, ma diffusamente esaltati. Come dimostra la percentuale di indagati e intercettati. E non c‘è male per gente che si presentava all’incasso elettorale come affossatori della “vecchia politica” e moralizzatori della nuova. Sì, i nuovi marpioni della mazzetta sono colpiti da nostalgia per la “gloriosa” tangentopoli. Ma arriverà mai una seconda Mani pulite dipietrizzata? In compenso, si risparmia sui poveri cristi indifesi, come i pensionati della Scuola. Al punto che un professore di filosofia e storia, dopo quarant’anni di onesto servizio, si ritrova con una pensione che non arriva, al netto, nemmeno a duemila euro mensili (e sfido, con un prelievo fiscale del 26%). Mentre gli sfaticati ciarlieri del sovrano Parlamento sguazzano nel bagno dei mille privilegi, facendo boccacce ai soliti contaballe che promettono, ad ogni volger di stagione, tagli delle pletore parlamentari, risparmi sugli spostamenti “illustri” (auto blu, voli e quant’altro), supercontrolli sull’uso vastamente plurale delle pubbliche finanze, così spesso “abusate” nel più e nel meno. E tutto questo non sarebbe violenza? Forse converrebbe prestare più guardinga attenzione a quello strano e sagace libello dell’Anonimo ateniese del V secolo a. C., La democrazia come violenza (tale il titolo dell’edizione Sellerio curata e magistralmente commentata da Luciano Canfora). Non certo per celebrare la dittatura, ma certamente per non cantare lodi liberal-democratiche ignare dei vulnera che ne rendono imperfetta la realtà operativa.
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Eureka! Abbiamo vinto. Cioè, ha vinto la pace. Perciò, di riflesso, noi pacifici e pacifisti. Questo scrittorello, già concluso un paio di giorni fa, era stato bloccato per attendere il nuovo appuntamento del 22 scorso: il corteo romano degli studenti. Oggi possiamo complimentarci con quei ragazzi per la prova di autocontrollo e (a suo modo) allegra inventiva che gli ha suggerito di evitare la “zona rossa” e gli eventuali (anzi inevitabili in caso di sfida) scontri comunque attizzati. E di averlo fatto con goliardica ironia e sorridente compostezza. Uno dei loro “cartelli” diceva questa boutade-verità: “Voi soli nella zona rossa, noi liberi per la città”. Ecco come lo presenta un articolo del Corsera: “Scritta in bianco su fondo blu, lo striscione srotolato davanti alla Sapienza annuncia di buon mattino la beffa organizzata dagli studenti. Nessun tentativo di forzare i blocchi della polizia […] ma una marcia pacifica, colorata e ironica che invade la periferia romana, blocca per qualche ora la tangenziale e l’autostrada per l’Aquila (un simbolo anche questo) e in più di un’occasione incassa la solidarietà della gente per strada”. Culmine dell’avventura, la gioia di essere ricevuti dal Presidente Napolitano, ascoltati con vivo (verrebbe voglia di dire paterno) interesse, invitati a mettere per iscritto le loro obiezioni alla riforma Gelmini (“Bisogna che cominciate a costruire queste eventuali correzioni”) e a inviargliele: “Inviatemele, le valuterò”. Quanto all’appello ingenuamente rivolto dai cortei al Presidente perché rifiuti di firmare i relativi decreti, non restava alla sua cortese pazienza che improvvisare una sorridente lezioncina atipica sui limiti costituzionali dei suoi poteri. E anche questo l’Uomo del Colle ha fatto con comprensiva tolleranza.
Di fronte al successo romano, gli episodi di violenza di Palermo e Milano sbiadiscono come piccoli spruzzi di pioggia in un cielo in prevalenza sereno. Mentre le considerazioni di esperti e giornalisti di vaglia (quali, per fare un esempio, Di Vico e Ferrera: Corsera, Le risorse che ci sono: “La giornata di ieri si è chiusa con un bilancio positivo. La temuta Apocalisse non c’è stata […] la coraggiosa iniziativa del capo dello Stato ha fatto il resto”) sulla necessità di assicurare risorse alle istituzioni culturali, a cominciare dalla Scuola in tutte le sue articolazioni, e alla ricerca, conservano tutto il loro valore di stimolo. A verniciarsi di rosso le non sempre attraenti facce dovrebbero essere certi politici appassionati di arresti preventivi e carcerazioni ingiustificate.
Beninteso, questo momento di, come dire?, relax speranzoso, resta ben lontano dalla traduzione delle corrette attese in realtà legislative e atti operativi. Conosciamo fin troppo bene le furbizie dei signori politici, specialmente di questa maggioranza scheggiata dall’incerto destino, per abbandonarci all’euforia di robuste speranze e vigilie di certezze. Le parole di Luca Cafagna (il giovane che sfidò La Russa ad “Annozero”) sono incisive: “Adesso il governo apra un confronto con noi, perché non è possibile chiudersi sempre dentro le zone rosse e blindarsi nei palazzi”. Ma non possiamo dargli più che un augurio sentito (quanto dubbioso verso l’Interlocutore).
Pasquale Licciardello

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