martedì 11 gennaio 2011

I fanatici di santo Israele

Che esistano varie forme di fanatismo è un dato di fatto di immediata verificabilità: si va dal tifo sportivo al credo ideologico, dalla passione artistica ai vari vizi (alcolismo, droga, eccetera). È ovvio, pure, che in ognuna di queste forme si manifestano diversi gradi d’intensità: la quale, in certi casi, può spingersi fino all’autolesionismo e al delitto. Tra queste differenti espressioni dell’Eccesso quelle religiose e ideologiche sono le più ricche di potenzialità violente: fino al crimine efferato, fino alla cecità assoluta sulle smentite più plateali delle loro motivazioni, cioè fino alla negazione dell’assoluta evidenza fattuale.
Tra le versioni ideo-politiche del fanatismo, chi non ricorda, degli anziani (anche di minima attenzione mediatica), la febbre paranoica maoista, che infestò i giovani (e non solo) più sensibili allo scandalo delle mostruose disparità economico-sociali? Fu il momento storico della Cina rivoluzionaria, vittoriosa, sotto la guida di Mao, contro la peste terroristica del nazionalismo oligarchico di Chan Kai Shek (quel tenero generale, “signore della guerra” che faceva “bollire” vivi i prigionieri comunisti); e fu anche il tempo dell’infatuazione planetaria per quella vittoria e il suo modello vincente. Il famosoLibretto rosso, quella sorta di mini-vangelo ateo che raccoglieva iPensieri di Mao, andava a ruba, e se ne vendettero o regalarono a milioni. Il “Grande timoniere” e poeta era adorato come un dio visibile (capace perfino di miracoli). La “Grande Rivoluzione Culturale” voluta da Mao era un titanico progetto di livellamento sociale, affascinante, ma incline a un fanatismo punitivo che coinvolse nell’umiliazione ingiustificata figure professionali, politiche, culturali rispettabili, a volte invano impegnate a denunciare le conseguenze nefaste degli eccessi livellatori. La nuova Cina liberista e capitalista, ha smesso il fanatismo maoista, marcia, da un trentennio, con uno sviluppo economico a doppia cifra, ma quanto a libertà di pensiero e tolleranza del dissenso risponde con la criminale repressione di Tien an men. Cioè, con diverso fanatismo, pronto a sparare sugli studenti democratici e responsabile di un inquinamento ambientale spaventoso. Per tacere della sorte dei contadini, in massima parte ancora (o per sempre?) esclusi dal nuovo benessere, alle proteste dei quali non si reagisce certamente con carezze sorridenti.
Esiste, oggi, un fenomeno paragonabile a quello cinese di quarant’anni fa? Certamente no, ma il fanatismo ideologico, politico e religioso non dimagrisce per quest’assenza: la rimpiazza con tutta la cecità testardaggine arroganza e spudoratezza che ogni fanatismo doc comporta. Ovviamente, si sta pensando alla versione islamica, ed è inevitabile: al Qaeda è Islam, i Kamikaze stragisti sono Islam, i missili Kassam sono ancora Islam. Ma se ci si chiede, con mente sgombra da pregiudizi, perché questo Islam fanatico e assassino non esisteva quarant’anni fa, si scopre un nesso ferrigno con la presenza di Israele in Palestina. Una mente sgombra (al possibile) di pregiudizi, che abbia seguito (meglio se scrivendone) la storia della Palestina nell’ultimo sessantennio sa quale macigno di responsabilità diretta e indiretta abbia lo stato ebraico nella nascita di quel mostro. Chi scrive ha seguito quella storia per decenni, e ha maturato queste convinzioni. Israele è nato dal terrorismo di ispirazione sionista, praticato contro gli inglesi al tempo del mandato britannico, e contro gli arabi palestinesi allora e dopo il disimpegno inglese. A praticarlo furono gruppi di militanti armati, i cui capi diventarono, a volte, eminenti politici del nuovo Stato (come Begin, comandante del gruppo Irgun, poi premier nello Stato di Israele). Ai fanatici ammiratori di Israele non piace che si ricordino questi precedenti terroristici (tanto meno il suo culmine prestatale, la distruzione minata dell’Hotel King David, che massacrò qualche centinaio di ufficiali inglesi allo scopo di accelerare il processo di formazione della Stato). La guerra scoppiata contro il neonato Israele nel i948 viene letta dai suoi fanatici come immotivato attacco arabo, gesto di pura cattiveria razzistica. Era, in realtà, un tentativo di correggere l’arrogante divisione del territorio palestinese a sfacciato vantaggio della nuova entità: un capolavoro dell’Onu, questa scelta tanto faziosa quanto provocatoria. E che dire dei milioni di profughi palestinesi, espulsi dalle loro case e costretti a ramingare tra ospitalità arabe diverse e non sempre amiche? Da quel tempo, tutti i tentativi degli stati arabi di battere Israele sono stati un fallimento continuo, una sfida all’impossibile: Israele era (ed è) tabù, una realtà garantita dagli Stati Uniti, che ne assicuravano forniture militari e sostegno economico (mediati dai miliardari ebrei presenti in America). In questi rapporti di ostilità aggressiva con gli arabi il vertice estremo fu toccato con la “Guerra dei sei giorni” del 1967, quando, con un attacco a sorpresa, sotto la guida militare di Moshè Dayan e un piano strategico elaborato con geniale puntualità sincronica e territoriale, le forze armate con la stella di David strapparono agli Stati arabi un’incredibile estensione di territori (dal Golan siriano al Sinai egiziano, dalla Cisgiordania e alla Striscia di Gaza). Soltanto nella Guerra del Kippur (1973), promossa dall’Egitto di Sadat, a capo di una coalizione, Israele, colto di sorpresa, rischiò di essere sopraffatto. E qui la tutela americana mostrò la natura assolutistica della sua protezione: fino ad attivare il 2° livello di allarme atomico. Tutta la tragica vicenda dei conflitti arabo-israeliani ha visto Israele rispondere ad ogni puntura di spillo dell’avversario con scariche di bombe missili e, da ultimo, perfino di schifosissime bombe al fosforo bianco, usato nella recente guerra di Gaza, la più distruttiva e barbara degli ultimi tempi. Ora tutte queste bravate delle forze militari israeliane sono state celebrate dai suoi fans come mirabilia da elogiare e tutte giustificate con il sacro diritto all’autodifesa. Mai una condanna per gli eccessi stragisti e affamatori commessi da Israele contro popolazioni civili, direttamente (come Sharon contro il presidio di Arafat, umiliato e “facilitato” nel suo scivolone verso la tomba), e più di recente nell’appena citata Gaza (della quale abbiamo scritto a suo tempo), con sterminio di famiglie intere, bambini compresi, orrende mutilazioni “sperimentali” di innocenti creature col disonorante fosforo bianco.
Insomma, Israele è una realtà sacrale per i signori idolatri dell’Israel ùber alles. Non ci si può permettere neppure un sondaggio sulle minacce alla pace, se la libera opinione decreta la prevalente responsabilità dello Stato ebraico in quella minaccia. Nel novembre del 2003 l’Onu si assunse il compito di questo sondaggio, promosso dalla Direzione generale Stampa e Comunicazione (organo della Commissione europea). Il sondaggio diede questi risultati: il 59% di 75515 cittadini europei indicò Israele come lo stato “che più minaccia la pace nel mondo scegliendolo da un elenco di 12 Paesi, tra cui Corea del Nord, Iran, Afghanistan, Iraq, Usa, Pakistan”. L’esito del sondaggio scatenò “una tempesta internazionale sulla Commissione” (e si era ancora lontani dallo scandalo di Gaza). Il Corriere della seradi quel 3 settembre dedicò un’intera pagina al caso, con questo titolone: Israele protesta, bufera sulla Commissione. Eh sì, i fanatici di quell’intoccabile sono sparsi ai quattro angoli del mondo occidentale. Il motivo di questo furore? Incredibile, ma vero, sta tutto in questa assurda accusa: il sondaggio Ue accrescerebbe l’antisemitismo già abbastanza (fin troppo, per i fanatici) diffuso nel pianeta. Il portavoce del governo israeliano suona la solita solfa sul passato che ritorna: “Proprio come nel passato gli ebrei venivano ritenuti colpevoli di tutti i mali del mondo, così oggi la società ‘illuminata’ getta le stesse accuse sullo Stato ebraico“. Indi, un sollecito per l’incauta Ue: “La Ue deve operare per arrestare la demonizzazione di Israele, prima che l’Europa torni al suo più scuro passato”. Lo stesso autore insinua che le accuse e le critiche politiche più volte correttamente rivolte allo Stato ebraico per il suo incessante dileggio delle critiche e decisioni Onu e degli appelli europei contro gli eccessi militari e le ritorsioni sui civili in tutte le “risposte” israeliane alle vecchie punzecchiature (ma da qualche tempo anche attacchi kamikaze, peraltro indotti da quegli eccessi) nascondano “puro antisemitismo”. Tacendo di altre voci del coro ebraico, vale la pena di citarne ancora una, quella del Centro Simon Wiesenthal che propone di “escludere l’Unione dai colloqui di pace per il Medio Oriente”. Motivo della brillante richiesta, il presunto “sfacciato pregiudizio’ anti--israeliano dei suoi componenti”.
In Italia la reazione all’esito, forse non prevedibile per i fanatici, toccò un acme di tutto rispetto nei due presidenti del Parlamento, Casini e Pera: il primo straparla di “improvvido sondaggio” che “metterebbe in discussione la serenità e l’obiettività dell’Europa” (non senza cantare l’amicizia e la stima del Parlamento italiano verso Israele, “Stato autenticamente democratico”); il secondo rimpolpa la dose degli elogi: Israele, “avamposto della democrazia europea in Medio Oriente”, e rincalza le critiche alla Ue per non aver “saputo trovare il consenso su una risposta di civiltà contro l’intolleranza”, esorta “singoli, gruppi e popoli” a “combattere senza cedimenti contro il rischio del ritorno del razzismo e dell’antisemitismo”. Delizioso, addirittura, Rocco Buttiglione (nomen omen!), a quel tempo ministro per le Politiche comunitarie, quando lancia la sua ugola d’ostia sacra in questo più che amletico dubbio: “Questo sondaggio è difficilmente credibile” (come dire: non prendiamo per oro colato la parola della UE). Forse perché “Se fosse vero sarebbe molto preoccupante”? Infatti, per l’ispirato testimone di Dio, “Israele è un Paese minacciato, non un Paese che minaccia”. Altra voce clamante al sommo del pentagramma è quella del compianto senatore a vita ed ex tutto, Francesco Cossiga, chiedendo, anzi intimando, al povero Prodi, capo del governo e presidente di turno della Commissione, di “convocare immediatamente una riunione straordinaria del Consiglio europeo che dia conto alla commissione esecutiva di questo inaudito comportamento e che la inviti a risponderne al Parlamento”. Bum. Dopo il superbotto sardo, un simile livello sembrerebbe insuperabile, invece no, non è così: da un ex direttore del Corsera sgorga una reazione che si mette in tasca tutte le altre, comprese le stesse reazioni delle comunità ebraiche d’Italia. Ecco, dunque, un assaggio dell’ira funesta che il fanatismo può dare in persona e parola di Piero Ostellino: “Ebbene, lo dico senza esitazione: io da questa Europa non solo non mi sento per niente rappresentato, ma non voglio nemmeno averci a che fare. Perché me ne vergogno come europeo, come italiano e come cittadino del mondo. / Che certe cose le dica un malesiano che di professione fa l’antisemita non mi sta bene, mi scandalizza, mi ripugna, ma non mi stupisce. / Che queste stesse cose le dica una istituzione europea attribuendole agli europei, quindi anche a me, beh, [il belato è tutto suo] non solo non mi sta bene, mi scandalizza e mi ripugna, ma mi fa dire forte che, come europeo, come italiano, come cittadino del mondo, mi stringo fraternamente a tutti gli ebrei ovunque si trovino: mi fa dire forte che sono più che mai vicino a Israele, che lotta per la propria sopravvivenza contro il terrorismo che uccide donne e bambini inermi; mi fa dire che condivido con loro tutto l’orrore e il dolore che provoca questa incredibile notizia”. Piccolo interludio, un elogio a Prodi, quindi la “replica” del cossighismo blindato: “Che Prodi, allora, prenda immediatamente, formalmente e fermamente le distanze da questo abominio, lo denunci per quello che è – una orrenda manifestazione di antisemitismo – e ripari al danno, che esso produce innanzitutto all’immagine dell’Europa, con una dichiarazione di principio, una presa di posizione chiara e definitiva contro ogni forma di razzismo e di antisemitismo in nome dei valori di tolleranza della nostra civiltà giudaico-cristiana. La stessa cosa faccia l’Italia che presiede in questo momento l’Unione Europea. E che Dio perdoni coloro i quali non sanno quello che fanno”
Commento a tanto scialo di oratoria sacra? A questi acuti da vecchio profeta biblico? Non è facile resistere alla tentazione di “sbuffare” un “ma vaffa….”. Una pausa, forse, ci restituirà un briciolo di sorridente disponibilità al mite sadismo ludico: il testo ne offre tutti gli appigli possibili. Un uomo che non perde occasione di recitare il suo credo demo-liberale; un ex direttore di giornale di alta diffusione e di buon livello, un intellettuale attento ai sacri testi dei diritti di libertà (di azione, di pensiero, di parola) nega a un’istituzione come la Ue il diritto di sondare l’opinione pubblica su un tema così delicato e di perenne attualità. Un tale predicatore di libera iniziativa degrada l’esito di una liberissima indagine a pregiudizio razzistico: non è il colmo della comicità involontaria? Un’iniziativa impeccabile, che dovrebbe, sì allarmare, nei suoi esiti, ma giusto e soltanto per quella maggioranza allarmante. Ad essere coerenti, si dovrebbe lodare questa iniziativa da medico che cerca i sintomi di una malattia non certo per compiacersene, ma, semmai, per sbarrarle il passo nei possibili modi della prevenzione. Il linguaggio esaltato, le scomposte reazioni isteriche montano soltanto la goffaggine delle teste blindate.
Qui, se c’è un movente remoto (e nascosto) della vicenda “santo Israele”, lo si deve cercare nell’orrore della Shoah: quella maledetta infamia manda ancora in giro certi suoi effetti. Gli Europei se ne sentono corresponsabili (in varia misura) per non averla impedita. E i superstiti di quei campi infernali, che hanno chiesto e ottenuto risarcimenti ponderosi in denaro, dagli spalti del santo Israele ne pretendono altri: di simpatia incondizionata, di complicità, di immunità per qualunque loro prepotenza e pretesa. E non parliamo, qui, degli ortodossi biblici, che sognano ancora la “Terra promessa”, strappandola, ai legittimi occupanti arabi. Ma su questo conviene rinviare l’eventuale riflessione.
PASQUALE LICCIARDELLO

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