mercoledì 19 gennaio 2011

I linguaggi-truffa del liberismo tosto

Chi non ha fatto esperienza dei linguaggi truccati? Ti dicono una cosa e ne sottintendono un’altra, ti vendono un oggetto lodandone le qualità, e quando lo usi ne scopri le magagne. Accade così dappertutto: in politica, in economia, nella cultura. E non è sempre facile scoprire l’inganno. Le difficoltà crescono col crescere dell’importanza del contesto, diventano addirittura insormontabili per tanti (troppi) cervelli in tema di economia, politica, religione e relative pertinenze. Dove si può vendere stoppa invece di pane, sofferenza al posto di benessere, coazione e ricatti in luogo di libertà, illusioni e speranze insensate invece di grazie e paradisi. Naturalmente, promuovendo a chiacchiere quei surrogati truffaldini a onesti contenuti del promettere: il colmo dell’inganno.
Da mesi Sergio Marchionne minaccia gli operai della Fiom sull’esito del referendum che deciderà il destino degli accordi già firmati da Cisl e Uil: o vince il sì o la Fiat trasferirà all’estero gli investimenti previsti per Mirafiori. Ecco una sua tipica frasetta allusiva, ma chiarissima nel senso appena velato: “Se al referendum vincono i no, brindano a Detroit”. Cioè, nel già previsto (e trepidante) terminale della lunga, reiterata minaccia di “delocalizzazione”: nella grande America, si sa, gli operai sono stati “Convinti” ad accettare il dimagrimento dei loro diritti (altrimenti connotabile come ingrasso delle fatiche). Quando il nuovo segretario generale della Cgil, Susanna Camusso, lo accusa di provocazione e di insulti, non solo ai lavoratori, ma addirittura all’Italia, lui risponde che vuole soltanto prendere atto del cambiamento. Ecco una parola passe-partout, un suono magico, che veicola significati maligni ma ben coperti. Dire Cambiamento (la maiuscola è tutta di merito) sottende questo trucco: la globalizzazione in atto costringe le imprese a una modifica radicale delle condizioni lavorative: se vuoi reggere la concorrenza straniera, devi essere competitivo; per esserlo, devi produrre a costi minori, per diminuire i costi, devi ridurre salari e diritti dei lavoratori: meno pause e meno lunghe, meno agio di assentarsi, e se ti ammali, che siano poche le ore di assenza, o perdi il posto. E un “eccetera” sottinteso, sul cambiamento. Ma ecco le parole intercorse nel duello a distanza fra l’ad Fiat e la Camusso. Alle minacce dell’uno, l’altra risponde che il signor Fiat “insulta ogni giorno il Paese”. Non solo, ma “tiene nascosto il piano industriale […] con la complicità di un governo che non fa il suo lavoro, ma è tifoso e promotore della riduzione dei diritti”. Parole di verità, quelle scagliate, ab irato, dalla segretaria Cgil. Parole sacrosante. Ma il bersaglio è di roccia lavica, e senz’ombra d’imbarazzo, replica (proprio dalla famigerata Detroit): “Se insulto significa introdurre un nuovo modello di lavoro in Italia, mi assumo le mie responsabilità. Ma non lo è. E non si può confondere questo con un insulto all’Italia.” Basterà questa parata sobriamente difensiva? Non siamo ingenui: Marchionne ha bisogno del belletto arrogante, dello strafare provocatorio. Come? E’ presto detto: capovolgendo la “semantica” del caso, trasformando la (sua) colpa in virtù, la penitenza imposta (agli altri) col ricatto in premio promozionale. Una cuccagna, per gli operai e per l’Italia tutta, dalle Alpi al capo Passero. Sentiamolo: insulto all’Italia? “anzi, le vogliamo più bene noi cercando di cambiarla”. Eccolo ancora lì il cambiamento, eccone l’assolutizzazione sacrale. Forse l’operaio non comprende tanta finezza? Pazienza, imparerà col tempo: non c’è pedagogia migliore che la frusta in maschera di necessità. E se il miracolo gnoseologico (o gnostico?) non dovesse accadere, poco male: c’è forse bisogno di spiegare al popolo la sottile natura dello Spirito Santo? La situazione mentale del contesto “Fiat-operai-cambiamento” è di quel tipo: un mantra religioso, un arcigno assoluto. La religione, insegnava Giordano Bruno, va bene “per li rozzi popoli che denno [devono] essere governati”. Non sono, forse, popolo (l’aggettivo va accantonato, per delicatezza pelosa) gli operai? Si potrebbe aggiungere quel che forse Marchionne sottintende, cioè questo pensierino: tant’è vero che l’hanno accettato pacificamente là dove non c’è stata sobillazione, in quel di Cisl e Uil, lande del buonsenso e del realismo. In fondo, Marchionne non ce l’ha – dice -- “né con la Camusso né con la Fiom, né con la Cgil e nemmeno con Landini. Hanno dei punti di vista che sono completamente diversi dai nostri e che non riflettono quello che vediamo noi a livello internazionale. Nessuno sta dicendo loro di cambiare punto di vista, ma questo non consente loro di accusare gli altri”. Anche le parole di rispetto verso l’avversario che “non capisce” il cambiamento, non vede la realtà internazionale, eccetera: quale compìto, rispettoso signore, questo sorridente manager di ferro! Tanto degno di ammirazione che il nostro cilicio nazionale sub specie hominis, nonché premier (per volontà della parte più bruniana dell’italo popolo dalle troppe vite), non ha perso tempo nello schierarsi al fianco del signor Fiat. Eccone le alate parole, pronunciate dal podio berlinese, un “sito” allusivamente giusto (la Merker ha convinto i suoi operai a stringere la cinghia e “modulare” denti e secrezione salivare per far crescere la Germana “solidale”): “Se vince il no al referendum, è giusto andare via”! Ma forse, dati gli spari verbali indirizzatigli addosso, domani dirà che è stato frainteso e che lui intendeva soltanto aiutare i tanti che si sforzano di frenare e convertire quegli scalmanati della Fiom. Così ha pensato chi lo segue da tre lustri. E così è stato (dettagli a parte).
In ogni caso, urge tallonare ancora il serafico numero Uno Fiat, che non si concede tregua nel definire il suo pensiero di (presunto) leale e responsabile italiano. Chi si fosse stupito che Marchionne non abbia ancora onorato l’etica, si consoli: l’ha fatto (non si può mica fare tutto in un sol colpo!). Eccolo che definisce “immorale” lo spreco (un certo spreco), e sempre dalla piazzaforte di Detroit lancia fulmini savonaroliani: “L’era degli sprechi è finita. Perdere tempo, denaro e opportunità, sperperare risorse fisiche e intellettuali non è solo antieconomico e distruttivo: è immorale”. A questo punto possiamo dire che l’autoritratto è completo: la sua tranquilla coscienza di manager combacia perfettamente col cinismo che ignora la realtà umana (come dire, psichica e corporale) dei singoli operai. E di chiunque attraversi la sua strada di generale fortunato, capace di mettere al muro (fosse solo dell’indigenza) il fantaccino o il caporale che devìa dal suo perentorio tracciato.
Marchionne, infatti, trova immorale la difesa degli operai più dignitosi e moralissimi i suoi compensi. Domenica 9 gennaio da Fabio Fazio, Nichi Vendola fece una rivelazione istruttiva sul manager Fiat: Marchionne prende quasi cinque milioni di euro l’anno (più chissà quanti e quali bonus: quella roba che il governo inglese sta permettendo alle banche di pagare ai loro manager più fortunati in business), e precisa che con tali compensi questo moralista del kappa viene a prendere ben 450 volte il salario di un operaio Fiat. E precisò, il governatore comunista della Puglia, che il capo storico della Fiat, Valletta, prendeva appena venti volte quel salario. Ecco un edificante esempio di moralità marchionnesca. Eppure Vendola sbaglia per difetto: ad Annozero (13 gennaio) abbiamo appreso che, tra stipendio, bonus, stock options e non so che altre diavolerie liberiste, il suo compenso annuo supera i venti milioni, ed assomma a 1070 volte il salario di un operaio. Come giudicare tanta impudenza? Cinismo? Ingenuità? Coerenza liberista? Un giornalista del famigerato Giornale arcoriano non ha dubbi: che c’è da criticare? Se li merita tutti i suoi euro. Ha salvato la Fiat in un momento difficile: dobbiamo essergli grati, e basta. E’ la logica, aggiornata, del vecchio mammonismo. La stessa che ispira le banche, nostre e planetarie.
Naturalmente, questo cambiamento non viene presentato nella sua nuda e oscena realtà partigiana e vessatoria, viene camuffato da menzogne anodine e persino di significato opposto: ma sì, addirittura, nel nostro caso, come incremento salariale. Non parla, Marchionne, di un aumento annuo di euro 1743? Ecco uno dei tanti trucchi: quell’aumento è più che compensato dalla crescita di fatto delle ore lavorative, conseguenza delle pause ridotte e della spietatezza dei turni.
Ma l’inganno più micidiale è la presentazione del famigerato cambiamento come evento fatale, cioè quasi divino e inevitabile. Vale a dire: non evento umano e problematico, ma necessità assoluta, evoluzione inarrestabile dei fatti che muovono la storia, con o senza il consenso degli agenti umani. Insomma, si tratterebbe di eventi fatali, para-divini, assimilabili alle misteriose intenzioni dell’Ananke greco, o del tremendo Geova biblico, sterminatore di città e primogeniti. La realtà, però, è diversa, o, almeno, presentabile diversamente. Con poco, anzi nessun vantaggio degli attori antropici. Questo innegabile cambiamento non è altro che l’ampliarsi della prassi liberistica: che è creatura affatto umana, teorizzata da economisti e filosofi di grande prestigio, e praticata sempre più largamente nel mondo contagiato dalla “civiltà occidentale”. Con buona pace delle continue smentite della sua presunta eccellenza, per gli effetti secondari della sua applicazione coerente. La prassi dei liberi mercati è senz’altro favorita dallo specifico successo economico-finanziario: vedi le recenti fortune di Cina, India, Brasile e, in piccolo, di altri Paesi emergenti. Tutto bene, dunque? Niente affatto. Quando si esaltano quei successi, si tace, di solito, il prezzo pagato dalle maggioranze: quanti saranno, in Cina, i nuovi ricchi? Cento milioni? I benestanti, duecento? E quelli che hanno migliorato, sia pur di poco, le loro condizioni? Altri duecento? Credo siano cifre esagerate, ma, anche se fossero realistiche, sarebbero comunque di minoranze. Ti dicono: il benessere verrà anche per i sacrificati di oggi. Ma l’esperienza suona: campa cavallo. Il liberismo sta bene a pattuglie aggressive e spregiudicate, le quali non usano nemmeno le parole operaio, povero, disoccupato, schiavizzato, poco assistito, eccetera. Questo rosario è ignorato dai vari Marchionne del pianeta. Il cui linguaggio conosce soltanto le parole impresa, azienda, profitto, produttività, concorrenza, crescita, Pil, e via inebriandosi sul medesimo metro. L’innocenza apparente di queste parole è la perfidia del lupo che si traveste da agnello: il loro uso nasconde la drammatica realtà della subordinazione operaia alla logica glaciale dell’aziendalismo in gara planetaria. Questa cosiddetta civiltà occidentale, liberal—democratica e cristiana è meglio definibile come mammonismo ipocrita: belle parole e fatti discutibili, e in gran parte infami. Perfino autolesionisti: il capitalismo dilagante sta ammorbando il pianeta in tutti i suoi ecosistemi, dalle terre ai mari, dai fiumi ai monti dai laghi alle foreste. E le strade, colonizzate dal motorismo brado, sono diventate l’incubo degli anziani costretti a guidare. Questa orgogliosa civiltà supertecnologica andrebbe meglio definita apoteosi dei rifiuti, Babilonia della monnezza assassina. Le catastrofi puntuali di ogni anno, (alcune in pieno e tragico svolgimento in questi giorni) sono il prezzo puntuale e tragico di questa insipiente mentalità bulimica. Ma invano ci mostrano che stiamo marciando verso l’autodistruzione inarrestabile: chi ascolta queste voci di fatti e misfatti correttamente interpretati da pochi osservatori attenti? Quel che conta è il successo economico, la monetizzazione sempre più vasta della vita sociale. Con il dilagante indotto della feroce malavita stragista del narcotraffico e dei centri commerciali pullulanti a ripulire denaro al sangue. E’ il paradosso dell’umanità: tanta intelligenza, tanta genialità, tecnologia sempre più “fine” e miracolosa, e il trionfo della stupidità omicida e, invisibilmente, suicida. Oltre le pandemie di saltuario scoop ne stiamo coltivando una radicale, lenta ma definitiva.
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Tornando al tema ristretto. Siamo al giorno dei risultati del referendum Fiat. Habemus papam: il sì ha vinto, i commenti fioccano, ciascuno schieramento interpreta l’esito come una propria vittoria, malgrado quel risicato 54% (assicurato soltanto dal voto impiegatizio). Ma non mancherà il tempo dei commenti: per ora dobbiamo chiudere questo mini-cahier des doléances. Magari ammettendo che si è evitato (forse) il classico peggio. Il futuro ci dirà fino a che punto gli oppressi resisteranno ai soprusi e alle menzogne dei padroni, e fino a quale altro questi vorranno spingerli o mitigarli. I discorsi della Camusso e del Landini non sono stati di resa a discrezione, ma di fermo puntiglio sulla difesa della dignità operaia: rispettiamo l’esito referendario, ma non firmiamo gli accordi contestati. E proponiamo di aprire un tavolo per una chiara nuova trattativa a tutela di quella minacciata dignità.
Intanto si dovrebbe interrogare chi si meraviglia delle lugubri stelle a cinque punte (emblema delle Brigate Rosse) comparse a fiancheggiare le minacce all’eroico Marchionne. Che dice di non aver paura. E forse è vero. Almeno un po’: è così convinto di marciare sul sentiero della pura virtù da sentirsi protetto da qualche celeste divino tutore di ogni virtù. La sua è, in fatti, la sola che il suo tipo d’uomo conosce, la virtù zoppa (ma luccicante nella società ubriaca di fede mondana) del successo manageriale, costi quel che costi (agli altri). E quindi si sente virtuoso a pieno regime.
Ma per non chiudere con quel truce ammonimento, riportiamo un pensiero del grande John Maynard Keynes, a riprova che le sigle non sono tutto nella distinzione delle teorie economico-sociali. E che si può essere liberali in più modi (non solo alla Panebianco, Ostellino e simili chierici). Eccolo: “La transizione dall’anarchia a un regime che mira deliberatamente al controllo e alla direzione delle forze economiche nell’interesse della giustizia e della stabilità sociale presenterà difficoltà enormi, sia tecniche che politiche. Ritengo tuttavia che il vero destino del nuovo liberalismo consista nel tentare di risolverle”, accettando “il rischio dell’impopolarità e della derisione”
Pasquale Licciardello

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