giovedì 10 marzo 2011

Seguito del diario sulla Libia in fiamme

25 febbraio Le convinzioni affrettate sono appiccicose, non è facile rimuoverle; tanto meno se sono anche (come capita alla fretta) euforiche. Quelle sbandierate sulla “rivoluzione” libica come precoce “risveglio di primavera” tutto splendore di libertà democrazia valori e altro dolciume ce ne ha messo di tempo per prendere atto di una realtà assai diversa e molto più complessa del nudo dualismo Tiranno-popolo, con tifo obbligato per il Popolo che tornava ad essere (o almeno a volere essere) sovrano. Tre giorni fa si era così convinti (intendo, lo era la maggioranza degli osservatori e dei semplici orecchianti di commenti altrui: in basso e in alto loco) che ci si preparava alle proverbiali giravolte per salvare capra e cavoli: affari privati e convenienze pubbliche. Tanti, quelli privati, sul territorio libico, a cominciare dal prezioso amico Berlusconi per finire a decine di nomi più o meno importanti. Ma già aziende pubbliche di vario peso (nessuno risibile) hanno dovuto sbaraccare. Duole che al malinconico ritorno al paesello siano stati costretti anche molti lavoratori che sulle imprese d’oltremare puntavano per camparci.
Ma ecco alcuni titoli del Corsera odierno. Prima pagina. Tripoli alla battaglia finale. I combattimenti si avvicinano. Gheddafi accusa Al Qaeda. Giornalisti italiani malmenati Seconda pagina: Guerra civile in Libia La battaglia Furiosi scontri attorno a Tripoli E Gheddafi accusa Bin Laden. Eccola là, la parola esorcizzata nei primissimi giorni della rivolta: ritorna (purtroppo) imbandierata del peggio: guerra civile. Cioè, incivile, barbarica, stragistica. Il Raìs, sorpreso e impermalito, sta mostrando il lato peggiore della sua personalità complessa. Certe sue espressioni sono indicative di uno stato d’animo da res sacra svegliata da una grossa bestemmia. I giornali parlano di mercenari, e ci saranno, ma “sfilano”, bene armati, anche i fedelissimi delle forze militari, pronti a rischiare la vita per un capo carismatico, certamente non odioso al loro sguardo di pretoriani ben pagati. Eccoli, i pretoriani, anche nei nuovi titoli: Un’armata di pretoriani per schiacciare i ribelli. E nel “catenaccio”: I figli del raìs guidano brigate di ex soldati, guerriglieri e disperati, con armi anche italiane. A proposito delle armi, tutte le potenze democratiche (più o meno) ne hanno vendute di ogni sorta al Colonnello, che oggi si respinge come l’appestato di turno. Come scintilla da questo semplice passo dell’articolo: “Tripoli, in questi ultimi due anni, ha riempito i depositi. La sola Unione Europea ha esportato armi per oltre 473 milioni di euro. Forniture che hanno interessato anche l’Italia: fucili, pistole, equipaggiamento per disturbare apparati elettronici, munizioni. Un affare da 79 milioni di euro che – secondo la Rete disarmo -- è avvenuto senza le necessarie autorizzazioni.” E qui cade opportuno un evviva! per le democrazie senza macchia le quali armano un tiranno tutto macchie e un bel giorno recitano il vade retrum come davanti a un invasato da esorcizzare, non smascherato prima perché drappeggiato di loquaci apparenze virtuose. Queste pulzelle che tentano di ricucire una verginità da troppo tempo perduta (in omaggio al dio Mammona) ricordano quelle escort di fama mediatica, e qualche minorenne di frequentazioni largamente note, alle quali si offrono non faticati milioni di euro perché neghino l’accaduto conclamato nelle non sospette conversazioni intercettate. Ghiotta occasione in dono a qualche giornalista curioso per un ennesimo sfoggio di critica bipartisan. Ecco Pierluigi Battista bacchettare, in uno dei suoi “Contromano” (piccato, forse più del solito), gli ipocriti di turno che voltano faccia (e tasca) al Raìs. Titolo grande, parola pesante: Da Londra al Palazzo di Vetro L’ipocrisia degli amici diventati “ex”.
27 febbraio. A proposito di schiumeggiate nel laghetto del ridicolo, non è male un titolone del pontificale Corsera (l’insolito aggettivo guarda, sì, al peso editoriale del quotidiano, ma non dimentica nemmeno la devozione, sì poco laica, a santa madre Chiesa, con l’annesso cestino per lettere di lettori che la criticano e quel non plus ultra di laicismo capovolto che lampeggia come un faro, dalla pagina domenicale riservata al cardinale Martini). Eccolo, il giga-titolo che assume il “candore” di Obama per tutta la lunghezza della pagina 5, col suo “Primo Piano” dedicato alla finalmente scoperta “Guerra civile in Nord Africa”: Obama intima a Gheddafi:“Vattene subito” con “catenaccio” che aggiunge queste difficoltà: Intesa all’Onu sulle sanzioni, dubbi di Cina e Russia sul deferimento alla Corte penale. Dove si può ammirare un resistente senso del ridicolo in due grandi potenze. Qualità che sembra mancare al ministro degli Esteri tedesco, Guido Westerwelle, di cui si riporta questo giudizio nella striscetta azzurro pallido che sovrasta titoli e titoloni: “Una dinastia che conduce una guerra così brutale contro il suo popolo è finita”. E noi pensavamo che soltanto gli italiani avessimo un Frattini! E, meglio ancora, un Berlusconi amicissimo e baciamani di Gheddafi: circostanza che fa crescere il peso politico contingente del nostro premier nel “concerto delle nazioni”. Telefonate, a non finire dai pezzi grossi della Polis occidentale con l’illusione che il nostro super-Girella sappia fornire lumi originali sul Proteo libico e il suo “futuro e libertà”.
Primi giorni di marzo. Il mese breve tramonta, entra in ribalta il “mese verde”, terzo del rosario calendariale, e sfilano un po’ meno rapidi i giorni della tragedia libica, meno propizi alle scampanate trionfali degli ottimisti al balcone della Democrazia con la maiuscola: il raìs picchia duro, il famoso popolo tutto febbre di libertà tenta in gran parte di scappare dalla micidiale festa democratica, mercenari e militari di Stato stanno, nella quasi totalità, dentro i convinti ranghi del presunto demonio non stretto di borsa, aerei e carri armati piovono missili e provano armi viepiù micidiali sulla carne dei nuovi “martiri della Libertà”, l’euforia degli scalmanati che vendevano la pelle dell’orso ancora vivo e più che mai aggressivo, malinconicamente si spegne. E non lascia che il ridicolo di certe sentenze sommarie e la conferma di un’antica verità, che homo sapiens politicus non impara nulla, o quasi, dal passato, e resta, contro ogni evidenza, esposto alle ridenti illusioni non disinteressate. I titoli di stamattina, 5 marzo, da un estremo all’altro dello Stivale, sembrano soffrire di quel ridicolo o della recente blefarite lacrimosa “Gheddafi wanded”, gridava La Sicilia, completando il titolone con una modesta rassegnazione: Ma lui non cede. Il “re dei giornali”, insomma, il Corsera, ripiega su una frusta metafora, ma il senso è lo stesso: Il pugno di Gheddafi sulle città. Sotto il titolo, in senso tecnico, scorre il cosiddetto “catenaccio”, più livido che mai: Campagna di terrore contro gli oppositori. Violenze a Tripoli. Sotto il titolone, un titolino pallido coniuga i due (presunti) opposti più stridenti: Preghiera in moschea e poi la battaglia. Il sommarietto del primo articolo dice: “Venerdì di guerra e di preghiera in Libia. Il pugno di Gheddafi si è abbattuto sulle città della rivolta. Scontri a Tripoli. Il premier Berlusconi propone un piano da 10 miliardi per il Maghreb e resta prudente sul blocco dei beni libici”. Quello del secondo articolo (di Fabrizio Caccia) ventila questo soffio di speranza avvolto nel grido dei rivoltosi: “Via Gheddafi, basta, il popolo vuole cambiare!” Il Popolo! l’inamovibile di ogni insurrezione, brilla di speranza nella dolorosa fatica degli insorti. Continua il sommarietto: “Non era mai successo prima, a Tripoli. Nessuno, mai, ha avuto il coraggio di pronunciare quelle parole. La rivolta, ieri, è arrivata a destinazione. Adesso può solo crescere o morire”. Strana “destinazione”, codesta, che si dondola tra due opposti. Ma tant’è. Gli sviluppi dei due testi citati non estraggono nulla di più significativo da una situazione che ha sorpreso (curiosamente, peraltro) la grande maggioranza degli osservatori professionali, politici di ogni livello dei Paesi occidentali, culmini politici del resto del globo. Il volenteroso Obama è dovuto scendere dal picco dell’altro giorno, ossia una esplicita minaccia di intervento armato, a più modesti moniti e movimenti: passeggiate della Sesta Flotta nel Mediterraneo, telefonate con Angela Merkel, gita di Hillary Clinton a Ginevra per “discutere del Caso Libia davanti al Consiglio Onu per i Diritti umani e con alcuni partner europei, come il ministro italiano Franco Fortini” (sempre pronto a scattare sull’attenti davanti al grande Alleato-padrone) e robetta simile. Un po’ patetico, anche lui: stretto fra falchi avventati (i neocon in fase di rigurgito imperiale) e realismo da guai giganti in corso (le guerre “impossibili” di Iraq e Afghanistan, la concorrenza industriale, mercantile e monetaria di Cina, India, Brasile..) non gli resta granché da fare oltre le sonorità delle minacce spuntate. O, in extremis, un’azione limitata, concordata con gli alleati, non ché legittimata dall’Onu.
Certo, quanto al ridicolo di alcune sortite oratorie l’Italia ha un primato inespugnabile in persone e personcine come l’appena “convocato” Frattini, l’inutile Gasparri, il focoso La Russa, il chierico Quagliarello (al quale non è quagliato il cervello: memorabile il suo grido-sintomo in Aula: “Eluana non è morta, è stata assassinata!”), Giuliano Ferrara (gli dèi ce lo conservino! Chi ci darebbe, come l’uomo elefante, lezioni di nuova immoralità fornicatrice quale medicina contro il moralismo bacchettone di noi poveri critici del sommo Silvio consumatore di escort e utente di minorenni?), i mastini delle inchieste taroccate, (Belpietro, Sallustri, Feltri, Porro..: ci mancherebbero i loro latrati di guardiani del tesoro certosino). Quando aprono la bocca Gasparri La Russa e Frattini sono cavolate fresche di orto ben irrorato. L’ultima sortita frattiniana mette in guardia contro le incognite di un eventuale intervento armato contro il Mostro libico (fino a ieri amabile amico del suo Patron e dunque di esso lui, Frattini in persona): qui il ridicolo sta nell’assoluta inutilità del suo intervento. Ben altre le teste che quel “rischio” hanno calcolato. Anche per un’iniziativa “leggera”, come un’eventuale no fly zone. Si ripiega sulle sanzioni economiche e non militari in genere. Il governo italiano, come suole, va a rimorchio: segue la Ue, seguirà l’Onu. Berlusconi è passato, com’è noto, dal “Non lo chiamo, non lo disturbo” dei primi giorni al rifiuto (obtorto collo) delle violenze ai civili.
Tra il comico e il drammatico sta l’incapacità di previsione dei “tecnici del prevedere”: grossi politici in servizio permanente e totalizzante, storici capaci di autorevoli volumi sui fatti avvenuti, specialisti delle inchieste giornalistiche, e filosofi della Storia con la maiuscola. Il Corriere del 27 scorso (che leggiamo oggi) dedica all’argomento un ampio servizio della sezione “La cultura”(pgg. 34-5) con un intervento di Edoardo Segantini ricco di titoloni e sommari, finestre e medagliette con foto (una sorta di svago sulla tragedia: ma c’est la vie e non è serio recriminare). Eccone un veloce cenno: Le sorprese della storia. Dal 1989 all’Africa: impreparati al futuro. La caduta del Muro, l’attacco alle Torri gemelle, la crisi dei mutui subprime, le insurrezioni lungo il Mediterraneo. A fronte di una mole di informazioni incredibilmente abbondante la capacità di leggerle e decodificarle sembra rimanere molto modesta. Per lo storico Piero Melograni le difficoltà previsionali dipendono dal fatto che “l’evoluzione tecnologica ed economica, mentre risolve un problema, ne crea subito un altro di superiore complessità". L’autore del fortunato saggio La modernità e i suoi nemici (Mondadori, 1996) cita, nel suo libro, un passo del Principe di Machiavelli (un vero intenditore di res humanae) che avverte: “in tutte le cose umane si vede questo, chi le esaminerà bene: che non si può cancellare uno inconveniente, che non ne surga un altro”.
Pasquale Licciardello

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