lunedì 6 giugno 2011

Fregoli iperbolico

E’ vero che il soggetto in campo non ha più di quattro-cinque accordi musicali nella sua cetra vagamente neroniana, ma ciò non gli impedisce di recitare più ruoli, e insomma più figure della comicità classica, come un Fregoli forse più modesto ma anche meno scrupoloso nell’utilizzo delle iperboli, perciò eccessivo. Insomma, iperbolico, appunto. “Ripassare” un florilegio delle sue battute ci consentirebbe soltanto una conferma di quanto sappiamo da quel 1994 che segna l’inizio dell’ultima (per ora) recita tragicomica della nostra storia nazionale, regionale, comunale: molta enfasi, pochi fatti a riscontro, troppi  “malfatti” nel realizzare i liquidi progetti. E via lacrimando. Che almeno un po’ di lacrime siano da risate, e sia pure in larga parte amare. Ma con quel correttivo di gocce sadiche che ti aiuta a campare nel peggiore dei mondi possibili.
         Il Corsera  del 10 aprile offre ampi servizi sul Pdl e il suo “travaglio interno”, rievocando un incontro sui generis, vale a dire tra ministri cofondatori “autoconvocati” in un bel ristorante di via Veneto (a tavola ci si intende meglio!) per affrontare una spinosa tematica: le imminenti elezioni regionali e coda, la crisi del partito, scosso da ambizioni divergenti da frenare (formazioni di “gruppi” al suo interno, casi Scajola e Miccichè, per esempio), la parte di programma ancora in fasce o in itinere (riforme: Giustizia, Costituzione, Fisco). Il titolone include già un paio di iperboli riferibili al soggetto: Berlusconi, il giorno dello sfogo: vorrei più calore ma vado avanti. “Mi azzannano da tutte le parti. Su Mondadori, una rapina a mano armata”. Ecco come il premier presenta la rivoluzione giudiziaria: “Dobbiamo abolire i partiti all’interno della magistratura e dovranno assumersi le loro responsabilità quei giudici che sbagliano e che non pagano mai”. E siamo nel corpo della prima iperbole (segnalarla qui, non implica – ripetiamo -- alcuna santificazione della magistratura in blocco). Focalizzata l’iperbole, emerge contestualmente la maschera del Fregoli: il Perseguitato. La seconda iperbole: riformare anche “la Corte costituzionale, che da organo di garanzia è diventato un organo politico che boccia le leggi impugnate dai magistrati di sinistra”. Incollata all’iperbole sfolgora la figura del Riformatore patriottico. Seguono pensierini arsenicati per Fini e Casini: del primo ricorda le critiche e finge un gioioso “finalmente” (“finalmente se n’è andato”) legittimando così una serenità forzata. Anzi finta e recitata. E sparando la terza iperbole da fantasioso falsario: “Finché è stato con noi non è stato possibile fare la riforma della giustizia perché c’era un patto tra lui e il sindacato dei magistrati che gli garantivano protezione mentre lui garantiva che non sarebbe mai passata dalla Camera una riforma sgradita ai magistrati”. Concede, in tal modo, alla platea un sorriso-battutina: “cofondatore”, lui? Ma via, gli si adatta meglio una qualifica demolitoria! “Fini sarebbe stato un coaffondatore”. Eccola qua la terza figura fregoliana: l’inquisitore-risanatore. Quanto a Casini, “quali argomenti potrà tirare fuori per spiegare l’alleanza con i comunisti”! Come se l’alleanza fosse già una florida pianta e non il seme di un personale sospetto (tra l’altro,molto semplificatore). Altra iperbole fa capolino da quei “comunisti”, dei quali si avverte appena il profumo di un residuo lontano, ma che il Cavaliere da tre lustri e passa si ostina a gonfiare in oscura realtà sparsa fra tutte le modestissime sinistre moderate della Disunità d’Italia (lucido titolo di Giorgio Bocca). La quarta figura “leopoldina” (Leopoldo è il nome di Fregoli) è il Civilizzatore dalla barbarie comunista. Il finale, poi, è da perfetta farsa. Lui che, azzannato “da tutte le parti”, si rivolge al buon dio come un bambino smarrito nel buio: “Al buon Dio chiedo di dare uno sguardo dall’alto perché abbiamo bisogno di lui per riuscire”. E il solito cretinetti a gridare: “Silvio subito santo!” Battuta scherzosa? Ammesso, ma anche da una battutaccia fa capolino la fisiologia (altri dica pure indole) dell’autore. Che nella vasta cerchia silvana è soverchiamente della qualità più diffusa da madre natura, come dire: della più grezza, rozza, acquistabile al mercato mammonico-carrieristico. In sintesi, fregoliana. Come recita il proverbio popolare, dio li fa e tra loro si accoppiano.
         Segnalare, qui, l’intera gamma delle sue avatar esemplificando ci porterebbe troppo lontano: basti, dunque, un assaggio e qualche esempio e caso più sonoro o clamoroso che dir si voglia. Il che impone di cominciare dagli ultimi exploit, e dunque dal G8 di Deauville, dove l’immaginifico (così poco dannunziano) accosta il presidente Usa Barak Obama, che, seduto, lo vede inchinarsi su di lui, aspettandosi chissà che clamoroso messaggio, e si sente blaterare, senza capire, questa buffa “rivelazione”: “l’Italia è dominata da una dittatura giudiziaria”. E chiarisce nei dettagli a modo suo. Il silenzio dello smarrito presidente oltremarino è un nodo di perplessità che non stoppa l’originalissimo riformatore in rebus della prassi diplomatica. Tanto vero che replica: dopo il numero Uno della massima potenza occidentale è la volta del suo equivalente sul firmamento orientale: e il povero Medvedev riceve analogo messaggio: “la patologia della nostra democrazia”, guastata da questa laida dittatura dei procuratori. Ma non soltanto ai due massimi leader ha rivelato tanta sconcezza, anzi si vanta di averne parlato “a tutti i leader, qui e anche prima di qui”. Quinci prendiam gli auspici, per dirla col poeta: questo aspirante martire del sommo Dovere (salvare la patria) non si dimetterà, assicura, neanche se il responso delle urne al ballottaggio fosse punitivo per la sua loquacissima arroganza assediata dalla monnezza pluriversa: “Lo escludo nel modo più categorico”. Il perché è esplicitato in questo titolone della Repubblica (28 maggio): Berlusconi: “La crisi è esclusa, resto finché non riformo la giustizia” “E’ patologica, l’ho detto a tutti. La stampa si vergogni”. Il ruolo-recita di moralizzatore riformista è il più comico del suo fregolismo ciarlone. Lo scontro con i giornalisti “di sinistra” (in particolare quelli del suo tallonatore inflessibile, idest “la Repubblica”),  segna culmini di quella comicità fregoliana. L’incipit dell’articolo sotto quel titolo è sobriamente incisivo nella competente resa comica: “La mandibola è serrata, lo sguardo irato, ‘Vergognatevi’ urla ai giornalisti”, l’occhio severo puntato su quello di Repubblica (“che gli aveva rivolto una domanda”), “rei di non scandalizzarsi ‘di fronte a 24 accuse cadute nel nulla’ e colpevoli anzi di ‘amplificare’ le notizie dei suoi processi ‘quando avete avuto per 24 volte la prova che le accuse contro di me erano infondate’”. Segue un commento al peperoncino: “Si spengono le luci su un G8 che ha impegnato sette leader a discutere dei problemi del mondo – dalla Libia al nucleare – ma che per l’ottavo, Silvio Berlusconi, è stato soprattutto un palcoscenico per mettere in scena la sua personale battaglia contro la magistratura. Il tavolo del G8 come ‘Porta a Porta’, usato per lanciare messaggi da campagna elettorale”. Altre esternazioni del Fregoli gasato. Alla conferenza finale del G8 legge un testo in cui si dice, tra l’altro, che non ha nulla di cui pentirsi, anzi rivendica l’onere e l’onore di aver denunciato a Obama che in Italia c’è “una dittatura dei magistrati di sinistra”. Altro che pentimento, qui siamo al merito di una medaglia patriottica: “E’ un mio preciso dovere istituzionale, ogni volta che incontro capi di Stato e di governo, spiegare loro quale sia la situazione in Italia, su vicende che potrebbero minare la credibilità di chi rappresenta il Paese”. Cicero pro domo sua insomma. E ripete la denuncia su una presunta “situazione non più tollerabile di interferenza di alcuni magistrati”. Così sarebbero “venuti meno quei bilanciamenti che erano previsti dalla nostra originaria Costituzione”. Queste canaglie di giudici, secondo la fantasia sfrenata del premier, sarebbero all’origine della caduta del primo suo governo (in realtà fu la Lega che gli voltò la faccia) e di Prodi nel 2008, eppure, scandalo degli scandali!, “non sono mai stati riconosciuti colpevoli”, questi sovversivi; “né tanto meno sono state sanzionate le loro responsabilità.”  
Quest’uomo che ha preso la maschera di tante professioni, che è stato “canzonettista” di bordo, mediatore di molteplici affari, costruttore di successo, ingordo impresario televisivo, politico improvvisatore, eccetera, senza lasciarsi assorbire professionalmente da nessuna, ubriaco di miliardi e di imbrogli, recita con più ostinato impegno un ruolo preferenziale nell’improbabile maschera della vittima giudiziaria. Ne è così preso che, come accade ai malati di fregolismo della versione sindrome di Capgras, è portato a vedere negli altri dei sosia di tutta fantasia: sosia personali, anche nei più lontani dalla sua faccia e faccia-tosta; o dei suoi intimi (amici, servi, dipendenti di vario rango). Così accade che stenta a credere a un’opposizione leale, fosse pure del più fulgido custode dei suoi interessi materiali o morali. Li vorrebbe tutti dello stesso stampo, simili ai lui, cioè gratificati dalla buona sorte dei suoi istinti istrionici e delle sue inclinazioni truffaldine. Eccolo, così, vedere nel consiglio benevolo la maschera dell’interesse personale. Fini lo criticava? Complotto, cortigiani, vil razza dannata! La gentile magistrata Daniela Melchiorre, dopo tre giorni di sofferta riflessione, lo ha piantato, rinunciando al seggio di sottosegretaria e dandone come motivazione “le incredibili esternazioni del presidente del Consiglio contro i magistrati all’incredulo presidente Obama”. Né manca di sviluppare la sua motivazione. Ma subito scatta la “risposta” del gregge più fedele al capo, ripetendone il giudizio o anticipandolo in parte: si è dimessa perché aspirava e sperava un ruolo di viceministro. Intervistata da Monica Guerzoni per il Corsera, con una grandinata di domande incalzanti che scavano su questa insinuazione, la Melchiorre si difende con piglio deciso: “Assolutamente no. Mi sono dimessa perché ho fatto il mestiere di magistrato con orgoglio e con onore. Pensavo di poter dare al governo il mio piccolo contributo, invece ho capito di essere incompatibile”. Domanda: “I suoi ex colleghi di maggioranza dicono che la nomina a sottosegretario le stava stretta”. Risposta: “In un Paese in cui l’istituto delle dimissioni non è contemplato, ho fatto un gesto forte, un gesto di dignità. E chi non è abituato ad avere a che fare con una donna con le palle gioca a massacrarmi”. Non conosceva l’avversione del Cavaliere per i magistrati? Come ignorarla? Ma da questo a quanto accaduto ci corre: la chiarificazione comincia quando il Fregoli seriale paragona i magistrati a “un cancro da estirpare”. Allora spiega la Monica schietta e poco monaca: “Come potevo immaginare che Berlusconi sarebbe arrivato a tanto? Quel che ha fatto davanti a Obama e ai grandi della Terra è inaccettabile, incredibile. Che tristezza, che desolazione”. Altra accusa alla è di essere stata un’inquieta transumante da un pascolo all’altro; lei respinge l’accusa: “Questi sei passaggi di cui si parla non ci sono mai stati. Io sono sempre stata liberaldemocratica e sono orgogliosa della nostra piccola forza piena di dignità. Non accettiamo analisi del sangue, la nostra posizione non è mai cambiata”. Ma il pastoso Rotondi promette di rivelare una meno nobile verità del caso. Chi fa uno sberleffo al Cavaliere ci è simpatico al punto che ci schieriamo d’istinto con l’autore: potremmo sbagliarci? Non è escluso, ma fino a prova contraria, crediamo alla donna con le palle. Giusto, come la seconda faccia dello scudo, la cui prima è l’antipatia per gli uomini senza, come la gran parte dei berluscones di fanteria.
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Siamo al dopo ballottaggi, maggio si affretta a chiudere bottega, nel mondo politico fermentano forti emozioni, nel pantano arcoriano si tenta di nascondere la paura di essere respinti nell’ombra dell’anonimato insignificante: quale maschera tira fuori dal pingue e variegato “cappello” il trasformista di Arcore a ridosso della sonora sventola appioppatagli dal “popolo sovrano”, suo custode, suo legittimatore, suo alibi sempre invocato a coprire le troppe défaillances? Niente di più e niente di meno che quella attesa da chi ha imparato a conoscerlo lungo questi anni di politica viziosa: minimizzare celiare invocare il futuro. Insomma, la maschera fregoliana dell’ottimista inaffondabile. Minimizzare: “E’ solo un gol, la partita continua”. Inutile fargli notare che perdere Torino al primo turno e Milano al ballottaggio, affondare a Napoli con quel uppercut sferrato da De Magistris al suo rivale, azzopparsi a Bologna, essere sfrattato da tante altre città di alto e medio peso non invita alla metafora del singolo goal: don Leopoldo è troppo abile nel suo mestiere per rinunciare alla maschera della battuta: “Dovevo fissare la data del mio funerale, ma sono troppo occupato, non ho tempo per farlo”. Ha voglia Bersani di gridare, in coro con Prodi: “Via il premier, non ha più maggioranza”: il premier non ci sente da quell’orecchio. Tanto meno pensa di prendere sul serio analisi demolitrici come l’editoriale di Ezio Mauro, che riassume già nel titolo un contenuto minuzioso e tutto plausibile. Eccone qualche passo e frase. Cominciando dal 1° capoverso. “Da Milano e Napoli, con percentuali che soltanto un mese fa sembravano impossibili, l’Italia dei Comuni manda un chiaro segnale a Silvio Berlusconi: è finito il grande incantamento, il Paese vuole cambiare […] Nell’ Italia pasticciata di questi anni, il voto fa chiarezza perché è univoco”. E’ “patetico” il tentativo di scaricare la responsabilità sui candidati, dopo averli approvati, caricati, aizzati “mettendo a ferro e fuoco la campagna elettorale”. Tante lezioni emergono dalla punizione elettorale del Cavaliere: che le lusinghe miracolistiche, i condoni immorali, le sanatorie velenose per il territorio eccetera non bastano più. La lectio magistralis di questa scivolata è che non ci sono più garanzie blindate per l’avventuriero. Non c’è sorpresa nella sua prevedibile spocchia, nel suo pretendere l’indistruttibilità politica: “Quando perdo divento più forte”. Tanto meno nella sua refrattarietà a moniti e impliciti “consigli” come il seguente: “Non si può guidare un Paese, dopo avere ottenuto il consenso del suo popolo come se si fosse all’opposizione di tutto, lo Stato, le sue istituzioni, i suoi legittimi poteri”. E’ ovvio, perciò un giudizio come il seguente: questo “estremismo ideologico sta perdendo Berlusconi”.
Milano e Napoli: due sconfitte brucianti per il Pdl: quel “45 per cento” lasciato da Pisapia al sindaco uscente; quel 65,4 del De Magistris a Napoli sono i fendenti più umilianti per la baldanza pidiellina diffusa e per il suo leader tuttofare, drogato di iperfiducia nella sua buona stella. Seguirà la resa dei conti. Quanto ai menagramo, ai notomisti del capello che fremono di pessimismo sulla vera vittoria, che non sarebbe dell’intera sinistra ma solo delle sue ali estreme, be’ lasciamoli sfogare. Come si concede sulla Stampa Luca Ricolfi, col suo editoriale Il vincitore nascosto delle elezioni, dove l’esibizione di un acume da monsieur le vivesecteure laboriosamente arriva a questa deludente conclusione: non il Pd ha vinto, ma gli estremisti della  critica globale, i Vendola, i Di Pietro, e magari anche il chiassoso Grillo mai contento (“Ha vinto la pisapippa”!). Come fare un governo con questa compagnia indocile? E se l’euforico Nichi si lascia sfuggire incauti urli di gioia del tipo “abbracciamo il fratello musulmano, il fratello rom!” ecco che i mai-contenti ci ricamano sopra. Tanto da indurre l’impulsivo ragazzotto a fare dietrofront e chiedere scusa per la gaffe che gli sconfitti destrini brandiscono a vessillo di conferma del loro preveggente zelo patriottico, mal compreso, ahimè, dal loro “tradizionale” elettorato. Se, poi, il fronte dei mezzo-contenti sale alla serietà accademica, ecco una puntigliosa disanima tecnica del contesto regionale italiano, targata Daniele Marini, che dimostra la scarsa, e quasi nulla, comprensione di quel contesto da parte dell’euforica alleanza di centro-sinistra. Ecco un incipit che intona brontolio di tuoni critici: “Il centrosinistra esalta per le vittorie conseguite, soprattutto per la rivincita nel Nord, fino a pochi giorni fa considerato inespugnabile. Territorio dove in particolare la Lega aveva saputo raccogliere consensi, interpretarne le esigenze. E’ in atto, dunque, un’inversione di tendenza effettiva? Il centrosinistra può ritenere di essere riuscito a intercettare effettivamente le istanze del Nord?” Si auto-risponde l’accademico autore con felpato problematicismo di vetrina: “E’ difficile dare una risposta certa, ma considerando i primi dati sui flussi di voto e la storia recente, qualche cautela è d’obbligo” (L’agenda politica del Nord
 ,  La  Stampa, 3  giugno). Nel decorso della riflessione quella “qualche cautela” si gonfia ad analisi accurata e puntigliosa sulla realtà di un Nord plurale e differenziato, alle cui “questioni fondamentali” “il centrosinistra non sembra avere ancora offerto risposte chiare”. Cioè, aderenti alla realtà economica dei territori, densi di variamente piccole e medie industrie bisognose di soccorso fiscale, bancario e ambientale (a fronte di una concorrenza globalizzata), cui nessuno ha ancora messo seriamente mano. Analisi tutt’altro che da oziosa vetrina narcisistica, e consigli del pari degni di meditazione, ma anche sospettabili di eccessiva sfiducia in questi leader vincenti che è pur sempre doveroso attendere alla prova dei fatti. Lasciandogli godere un po’ questa gioia da astinenza protratta.
         Personalmente, se ne avessi l’autorità, qualche dimesso consiglio lo arrischierei in quella direzione. Non sullo specifico dell’economia, come si vede, ben curato dall’attenzione degli esperti, quanto sul tema della sicurezza ambientale. Insomma, del non piccolo problema della malavita organizzata, inserita fin troppo sfacciatamente nel tessuto economico del territorio, con scarsa differenza tra Nord e Sud, visto che a quest’ultimo è stato lasciato, in decenni di attenzione parcellare, quasi libero passo nella contaminazione del suo tessuto produttivo e mercantile in tutte le sue componenti di buon appeal.  Discorso attinente in modo speciale al caso Napoli (e regione): De Magistris è giovane, onesto, vigoroso, tenace, qualità eccellenti per una incisiva esperienza di governo di qualunque ampiezza. Sarà avvicinato, magari in modi così coperti da sfuggire di primo acchito alla media penetrazione “radiografica”. Una minuziosa analisi può scoprire la malizia anche meglio nascosta: cosa fare? In questo preciso istante mi si è accesa nella malconcia memoria la nobile figura di Libero Grassi: ecco un modello. Ma da imitare fino a qual passo e punto? Si vuole dire: che cosa fare e non fare per evitarne la sorte tragica (visto e considerato che un valoroso vivo è sempre meglio di un eroe morto e molto celebrato. Negarsi, denunciare, informare e attivare le forze dell’ordine, eccetera: questo sarà necessario. L’appoggio dei giovani conta. La rettitudine delle divise - carabinieri, polizia di Stato e locali – è indispensabile, ma purtroppo non assolutamente garantita (checché ne dica la retorica d’obbligo). La scorta balena all’orizzonte come una necessità non trascurabile. Come pure la vigilanza personale. Due esperienze di centro sinistra hanno palesemente deluso: Bassolino e la Jervolino, due volte governatore della Campania il primo, e altrettante sindaco l’altra. Et altro non ci appulcro. – a dirla col Poeta. Non gradiremmo una terza esperienza comparabile.
         Tornando al Trasformista (per un breve congedo), che dire? La ripetitività è il suo destino: anche nel passare da una recita all’altra del folto repertorio fregoliano. Ha fatto caciara contro i media avversi, ha criminalizzato Annozero, non esitando a dichiarare che trasmissioni come quella non ce ne devono essere più, non accarezza neppure Ballarò, e prende a calci di male parole quasi tutti i giornali, esclusi i suoi e qualche spalleggiatore più o meno strabico (a suo favore). Che resta da commentare in tanta ripetizione di recite successive? Limitiamoci agli ultimi eventi interni di quel cosmo-caos. Angelino Alfano segretario del Pdl. Eletto all’unanimità. Evviva. Si attendono mete prodigiose. Ci si può chiedere “chi ne dubita?” Come no, se nella risposta formicola un prurito di sottintesi che fan capolino a mezze parole e a interi “sì, però”. Rivolti al futuro, sia pure, ma un futuro incalzante, tutt’altro che da calen- de greche. Dice il ministro “responsabile” Romano: “Scelta azzeccata, ma ora prioritaria è l’azione dei governo, serve impegnarsi su fisco e Sud”. Altro assenso condizionato, quello del non meno “responsabile” Pionati: va bene Angelino, “ma ora il Pdl va rifondato alla radice”. Il giovane ministro sudico Fitto trova “una grande opportunità nella svolta generazionale”, ma aggiunge: ora, però, “rimbocchiamoci le maniche”. La meno diplomatica è la Mussolini: “A me Alfano va benissimo, ma non è possibile sceglierlo di notte a palazzo Grazioli, serve un congresso”. E così via. Un via in cui soffrono di impazienza vari nomi di spicco, da Scajola ad Augello, dal ciellino Lupi (che annusa già la poltrona sgombrata da Alfano) al ciellone Formigoni. Questi in rotta di collisione con Tremonti, cerbero dei conti, che il Figlio di Maria vorrebbe meno correnti e più corrivi (“la gente di tasse e di controlli non ne può più”) e che diamine! Tremonti si sente invitato a pranzo, e scaglia una delle sue risposte al curaro: “La mia gratitudine a Formigoni è pari alla sua amicizia”. Che giocherelloni!
         E pazienza se il mondo va avanti per conto suo, con i suoi disastri, le sue guerre, le stragi da fame, le barcone di migranti in fondo al mare e gli occupanti in bocca ai pesaci, e che miracolo quando se ne recuperano i corpi. Va avanti anche la follia del nucleare difeso a spada tratta e mente offuscata da fior di esperti (perfino dal venerando Veronesi, perfino dal nipote di Fermi, e in Annozero senti i devoti di sant’Atomo sciorinare numeri e confronti da manicomio, e soprattutto mostrare una totale impermeabilità allo strazio di bambini morsi dal cancro da radiazione a Chernobyl e nel Giappone. E ora, ultima grazia, l’escherichia coli mutante che da innocuo frequentatore delle nostre viscere diventa un killer infernale. Ma di questo, se Thanatos concede una dilazione, nel prossimo futuro.
Pasquale Licciardello

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