Cominciamo dalle barzellette in senso stretto. Un ebreo racconta a un familiare...Ai tempi dei campi di sterminio un nostro connazionale venne da noi e chiese alla nostra famiglia di nasconderlo, e noi lo accogliemmo. Lo mettemmo in cantina, lo abbiamo curato, però gli abbiamo fatto pagare una diaria...E quanto era in moneta attuale? Tremila euro...Al mese? No, al giorno... Ah, però...Be’, siamo ebrei, e poi ha pagato perché aveva i soldi, quindi lasciami in pace...Scusa un’ultima domanda...tu pensi che glielo dobbiamo dire che Hitler è morto e che la guerra è finita? Fine della storiella. Ma non del clamore che n’è seguito. Che dura ancora mentre ne scriviamo. E che non sempre è calibrato sulla “fisiologia” del faceto “narratore”. Troppo serio, per esempio, quello dell’ex presidente delle comunità ebraiche italiane, Amos Luzzatto, che prende la barzelletta come indice della scarsa coscienza etico-storica degl’italiani: “Non siamo riusciti a trasmettere all’opinione pubblica la gravità dell’olocausto e delle persecuzioni che abbiamo subito [...]Gran parte degli Italiani crede che di fronte all’Olocausto gli ebrei fossero in condizione di mettersi al sicuro”. Non senza integrare con questa (peraltro, opportuna) smentita: “Purtroppo a questa visione falsata hanno contribuito i numeri gonfiati degli ebrei salvati per iniziativa di Pio XII, che in realtà furono una percentuale molto modesta”. Bastava dire che la barzelletta è l’autopresentazione di un bellimbusto privo di sensibilità empatica. Cioè, un uomo per il quale non c’è nulla di “sacro”, d’intoccabile. Insomma, d’indisponibile per le barzellette.
L’altra delle quali torna a punzecchiare un suo dilettevole bersaglio, Rosy Bindi (vedi eroismo del barzellettiere!): Durante una serata danzante un cavaliere va dalla ragazza scelta per ballare: lei si presenta con il nome di un fiore al femminile, l’uomo risponde con il nome del fiore al maschile e si balla. Quindi un uomo si avvicina a una ragazza, “Margherita”. E lui “Margherito”. Poi un altro si avvicina a un’altra ragazza, “Rosa” e lui “Roso”/ Un altro va verso Rosy Bindi, un po’ coperta nell’ombra, lei dice “Orchidea” e si tira in avanti, lui la guarda e dice “Orcodio” (ma La Stampa, da cui, trascriviamo, vela la bestemmia sotto tre puntini). Reazione (un po’ sprecona!) della Bindi: il Premier deve “chiedere scusa a tutti i credenti di questo Paese, alla Chiesa e alla stampa cattolica”. La quale non se lo fa dire, e attacca l’incauto sfottente: Famiglia cristiana, dal suo sito, è la più colorita: “Dal Cavaliere arriva uno dei più chiari esempi di quel ‘cristianesimo alla carta’ o ‘cristianesimo usa e getta’”. E, cristianamente, smaschera lo spudorato: un politico “intriso di sentimenti cattolici quando si tratta di chiedere voti, ma sostanzialmente estraneo al sentire cattolico in ogni altro momento”. Ma la molto apostolica ministra Gelmini garantisce: “Il Pdl è il partito più sensibile ai valori cattolici”.
Postilla. A leggere le reazioni si godono meglio le barzellette incaute. Questo “sentire cattolico”, per esempio, mi fa ricordare l’accoglienza festosa di Benedetto XVI all’incontro con Berlusconi a ridosso degli scandali delle escort e contesto. “Oh Presidente, che gioia!”. Il ricordo vuol dire: niente paura, in partibus infidelium, il voto cattolico non mancherà alle prossime elezioni. Il Paperon dei paperoni sa bene come (e quanto) farsi perdonare dalla santa madre Chiesa: questione di borsa e sborsamenti. Tutto qui. Quanto alla verità effettuale del “sentire cattolico”, basti ricordare le pesanti offese rivolte al premio Nobel Sagrafedo in occasione della sua morte per misurare quella sensibilità evangelica. Insomma, è un po’ barzelletta anche il “sentire cattolico”
Altre critiche di quella stampa. L’Osservatore Romano commenta così la sortita del premier “alcune battute del capo del governo [...] offendono indistintamente il sentimento dei credenti e la memoria sacra dei sei milioni di vittime della Shoah”. L’Avvenire, quotidiano dei vescovi, parla di “insopportabile bestemmia”, di “consunti stereotipi sugli ebrei”; e aggiunge: “c’è una cultura della battuta ad ogni costo che ha preso piede e fa brutta la nostra politica. E su questo tanti dovrebbero tornare a riflettere”, massime se si è “uomo delle istituzioni”, e addirittura “capo del governo”. Su costoro “grava inesorabile un più alto dovere di sobrietà e di rispetto per ciò che si rappresenta, per i sentimenti dei cittadini e per Colui che non va nominato invano”. Sembra l’annuncio di una svolta storica, e infatti la Repubblica ci spara sopra un titolo-azzardo: La bestemmia di Stato ha rotto l’incantesimo. Ma noi rinviamo il lettore alla nostra previsione sul voto cattolico e la borsa “certosina”. Non senza aggiungere una noterella sulla militanza dei media cartacei: su queste e simili esternazioni dei fogli cattolici il quotidiano di Scalfari stende titoloni cubitali: “Offesi i credenti e la Shoah” il Vaticano contro Berlusconi. E il giornale dei vescovi: “ci mancava la bestemmia”. Cui fa eco l’analisi di G. Zizola, strombettante come sopra. La stessa pagina del titolone ospita, un articolino che dovrebbe accendere qualche dubbio su quella presunta rottura: breve testo, e soprattutto piccolo titolo: Fisichella “assolve” il Cavaliere. La Bindi: “Così giustifica la blasfemia”. Secondo l’alto prelato le parole del premier “vanno contestualizzate”. Indi, non esageriamo con lo sdegno e le condanne! Comprensibile la reazione stizzita della Bindi: “Sarò all’antica, ma mi amareggia profondamente e mi turba constatare che per un pastore della mia Chiesa ci sarebbero occasioni e circostanze nelle quali è possibile derogare anche dal secondo comandamento”. Insomma, “barzellette” dall’uno all’altro campo. Lo sono, in certo modo, anche gli sfoghi di certe suscettibilità religiose, cattoliche o ebree che siano. Non diciamo la reazione alla storiella infame sulla Shoah, ma quando si arriva al solito clamore (con richieste di espulsione eccetera) per un Ciarrapico che insulta Fini chiedendogli se ha già “calzato” la biblica kippah, be’ siamo all’eccesso “barzellettistico”. Lo è di meno la cecità pelosa degli stessi clamanti per quel berretto sui crimini di Israele contro le popolazioni civili palestinesi, osando paragonare certi missili buoni a fare qualche buco nei muri al “terra bruciata” di Gaza e relative mutilazioni di bambini da “fosforo bianco” e altre diavolerie di provenienza alleata (leggi Usa).
E torniamo all’imputato major: come reagisce? Secondo il suo stile: scandalo? “E’ soltanto una risata, e lo scandalo, semmai, è di chi la pubblicizza”. Dunque? “Lo scandalo? E’ soltanto un pretesto per attacchi strumentali e ipocriti”. Il solito ribaltamento dei ruoli: il colpevole diventa vittima. Ma le barzellette migliori sono le involontarie, cioè i nuovi complimenti alla magistratura: dove, secondo il Cavaliere, si anniderebbe una vera e propria “associazione a delinquere”. E basta così? Macché: il Cavaliere dalla trista figura sogna “una commissione d’inchiesta” per snidare quella maligna congreca, estirpare quel bubbone infetto. Il progettino in nuce ispira i tg meno faziosi della domenica, e il Corsera del lunedì ride con questo titolo sulle sparate del plurindagato furens: “Inchiesta parlamentare sui pm. La sfida di Berlusconi”. E il bersaglio come risponde? Con signorile pacatezza: “Così accresce la tensione”. O, anche, con lapidaria sobrietà: “Non ci faremo intimidire”. Tutto qui. Qualche consigliori (pardon, consigliere) del Principe boccia la barzelletta: pretesa non prevista dalla Costituzione. E noi la cambieremo, replica con uno dei suoi “pezzi forti”. Ci vuole tempo? Vedremo. Mutevole come un galletto di latta segna-vento, l’inesauribile dice e disdice, afferma e nega a distanza di ore. Il tre ottobre minacciava: i finiani devono essere fedeli (al programma) “ogni giorno o subito al voto”. Il 6 il Corsera stendeva sull’intera pg.5 questo dietro-front del Cavaliere: Richiamo di Berlusconi: basta parlare di urne. Oggi, 7, la Repubblica apre con questo titolone virgolettato (sono parole del Berlù). “No al voto, temo governo tecnico”. L’incipit dell’articolo è l’ennesima barzelletta (del genere: “io? quando mai”). Eccolo: “Elezioni? Mai minacciate, sono sempre stato convinto che fossero un guaio.” Notate quegli avverbi: “mai”, “sempre”. Una vera passione. “Un guaio”: cioè, una minaccia capace di ispirare “un esecutivo tecnico”. E per tentare di zittire Bossi, che continua a gracchiare sul “voto a primavera”, promette mirabilia. Torniamo a leggere nel titolone: Berlusconi: oggi il federalismo, tra due settimane riforma della giustizia. Esternazione che compete validamente con le barzellette strictu sensu. E trascina il premier in un circolo completo. Il Corsera del 12 settembre riassumeva in un titolo perentorio, che è una citazione testuale del Cavaliere tutto-macchie: “Il presidente della Camera? Spero che ritorni in ginocchio” Il “catenaccio” del titolo è la traduzione di un tentativo sonoro di Bossi: Bossi: io sarei andato al voto, ma Silvio e il Colle non vogliono. L’occhiello, più sintetico, è anche più colorito: “Il Senatur evoca Fini e mostra il dito medio. Nel testo l’argomento digitale è conclusione mimica di un sintetico approccio verbale: “Fini dice che la Padania non esiste? Tié! Noi esistiamo e di solito vinciamo le elezioni.” Naturalmente, è quel “Tié” che alza il dito. E poi ci lamentiamo dello scarso umorismo dei nostri politici.
Ma torniamo al presente. L’azione convergente di consiglieri e “calcolatori” (“ho fatto bene a regalare a Silvio un pallottoliere [...] si vede che è servito. Lo vedo improvvisamente tornato in sé”: così Casini), spinge il Giove tonante di pochi giorni fa a questa amara resa al Fato (che, come insegnavano i nostri padri, conta più degli dei): “Basta, con Fini dobbiamo trattare”. Resa condita da questo sospiro, unico residuo esponibile dell’odio attizzato dalla passione istituzionale del Presidente della Camera: “Sono deluso, l’ho trattato per sedici anni come un figlioccio, ora lui mi ripaga così”. Come un figlioccio: voce dal sen fuggita, che evoca il Padrino. Ma forse domani lo Smemorato a gettoni alterni la rinnegherà. Non nel senso che se ne scusa (come è stato costretto a fare Ciarrapico con gli incontentabili ebrei italiani), ma nel senso che negherà di averla pronunciata: altrimenti che barzellettiere sarebbe?
Appena ieri (6. 10) abbiamo visto un Cavaliere in versione “tuona e sbraita”. Ecco titolo e incipit di un articolo del Corsera: “Si accorgeranno presto che non sono finito”: “L’umore è esposto ai rovesci della politica, come il suo governo, ma nonostante tutto sembri congiurare contro di lui, Berlusconi è convinto di portare a termine il ‘progetto’” (Verderami). Ed ecco le parole del premier clamans, anzi le nuove barzellette involontarie: “non mi curo se mi danno del ‘nonnetto’, se dicono che mi sono imbolsito, che sono finito. Se ne accorgeranno presto. Io non me ne andrò fino a quando non avrò dato vita al più grande ricambio generazionale della storia”. Da far tremare le vene e i polsi: che ci voglia trasformare tutti in 50 milioni di robottini arcoriani? Meno male che sono vecchio, e non farà in tempo, con me. Intanto comincia col rabbonire Santa Madre Chiesa (le maiuscole sono in conto Cavaliere) accelerando sul “piano per la vita”, come dire l’agenda vaticana che pretende di strozzare ogni “pretesa laicista”, ovvero ogni traccia di sana civiltà: indi, “campagna contro la RU486, aiuti alle nascite sacralmente corrette, norme restrittive sulla biopolitica, accanimento terapeutico, eccetera. I ministri Fazio (Salute) e Sacconi (Welfare) sono mobilitati. E Tremonti deve lasciarsi spremere qualche soldino per aiutare le famiglie cattoliche a fare figli. Nonché mandarli nelle scuole private cattoliche (come ha fatto Formigoni nella “sua” Lombardia. A proposito, il governatore purissimo è inguaiato per certi brogli elettorali). L’accelerazione serve anche a prevenire slittamenti clamorosi verso il Pierferdi nazionale. E seminare zizzania nel campo di Agramante, cioè dentro il composito Pd che ospita nel suo ventre molle la componente cattolica, sempre rognosa per eccesso di sensibilità vaticana.
Tutto si può dire della nostra vita pubblica, tranne che ci faccia sbadigliare di noia (o di sonno): non si finisce di gustare un evento che subito un altro viene a galla a fargli concorrenza. Nel caso si tratta ancora del Premier, della sua più recente invenzione (mai dire “ultima”, con lui!): i team elettorali(stici). Squadre di ragazzi ambosessi da sguinzagliare sul territorio a fare pubblicità alla santa Causa. Né finisce qui l’inventiva del fantasioso Consiglio dei consiglianti: c’è di mezzo anche un libro. Non è un lapsus: un vero libro. Per fare cosa? Indovinate. Sì, come avete pensato: a far radiosa luce sulle conquiste del regime, pardon del miracolo certosino. Che tradotto in italiano significa: a fare un elenco delle opere realizzate dal governo silvanico. Insomma, un altro bouquet di ghiottonerie barzellettistiche. Perché, come sa la componente non drogata del popolo italiano, quel tale elenco sarà un mostro di millanterie e di strampalate amplificazioni di piccoli risultati, presto sopraffatti e in gran parte cancellati dal ritorno del “rimosso”.
Ecco un altro stop all’invio telematico di questo excursus: “Dossier contro Emma Marcegaglia” Indagati direttore e vice del “Giornale” (Corsera, 8. 10) . E uno dei tanti commenti (Flavia Perina, Il secolo d’Italia): “Quel che è ipotizzato contro la Marcegaglia, cioè una campagna di denigrazione attraverso dossier, il Giornale lo ha già fatto nei confronti di Boffo e di Fini. Evidentemente qualcuno perde il pelo ma non il vizio”. Evidentemente. E queste non sono barzellette, ma pura e distillata verità machiavellicamente effettuale. Le barzellette vengono dalle “esternazioni” dei vari produttori di quel Mondo bacato. La Russa avverte la magistratura: “sappia che non deve dare l’impressione di una censura preventiva, una sorta di condizionamento della libera stampa”. La quale, sottintende Mefisto, deve essere libera fino alla calunnia e al ricatto, quando sono ben mascherate. La barzelletta di Bondi vince tutte le altre uscite da quelle bocche al tossico: “Si tratta di decidere se vogliamo vivere in un Paese civile oppure in una società in cui vengono violate le leggi da chi dovrebbe farle rispettare”. Sottinteso, la magistratura, la solita persecutrice, secondo quel testone curiale, dell’immacolato Idolo e del suo mondo sacralizzato dai troppi Bondi. Cicchitto è sempre quello che pretende di saperne più degli altri complici. “E’ evidente che i telefoni e i telefonini del Giornale e dei suoi redattori erano controllati da tempo”. Peccato che l’evidenza lampeggi da tutt’altra parte, e fa le boccacce alla malafede dei “censori” arcoriani: l’affaire nasce da un sms del vice direttore (Porro) di quel Giornale all’amico Rinaldo Arpisella, “strettissimo collaboratore della Marcegaglia”: vi si annuncia un servizio sulla famiglia Marcegaglia. Segue uno scambio di telefonate che convincono Arpisella di un rischio dossier per la sua “padrona”. La quale va dal procuratore, collegando la minaccia alla sua critica al governo, al quale aveva detto “che stava finendo la pazienza degli industriali”. La signora telefona, anche, a Fedele Confalonieri, che le assicura di fermare la “macchina”. Ma prega anche la signora di “cambiare atteggiamento” verso l’augusta fatica del premier. Mentre il gentiluomo Sallusti querela (sic) il pm di Napoli, Lepore, “per diffamazione”. Le ultimissime prima di spedire sono: la pubblicazione del dossier da parte dell’eroico Feltri (quattro pagine del Giornale!), la figuraccia di don Fedele, la fermezza della presidente di Confindustria: Marcegaglia: vado avanti e non mi faccio intimidire (La Stampa, 9.10), la decisione dei pm, che “ascolteranno Confalonieri come testimone” (senza mollare, intanto, sulle altre misure in corso).
Ecco, dunque, il mondo reale di codesta filibusta politico-giornalistica, che pretende punire i suoi avversari a furia di agguati proditori e montature vigliacche. E che spesso rimane scornata, come nel caso Di Pietro, che si pretendeva sospendere dalla Camera perché parla chiaro, e accusa il premier di “stuprare” la democrazia. Fallita l’offensiva in Aula contro di lui, il Tonino conferma: “Non rinnego una parola. Tornerò a fare un’opposizione ferma e risoluta in aula e ricorrerò a tutte le parole che il vocabolario mi mette a disposizione. Chi utilizza le istituzioni per farsi gli affari propri che altro è se non uno stupratore di democrazia?” Parole fieramente limpide, che non piacciono neppure ad alleati e concorrenti in opposizione politica.
Ma vogliamo chiudere con un’ultima manciata di barzellette involontarie di gentile fattura: l’esibizione della Santanché ad Annozero. Un vero spettacolo: una scolaretta che ripete cavolate colossali memorizzate alla scuola della disinformazione vocazionale. Un caso per metà da ridere per l’altra da meditare sull’insensibilità coriacea di certe figure. Un momento di quella trasmissione: un gruppo di giovani giornalisti calabresi intervistati dal collaboratore di Santoro rivelano le minacce mafiose cui sono fatti segno, con argomenti orali e simbolici, per scoraggiarne i servizi su drangheta e collusioni politiche. Sono ragazzi che rischiano la vita, decisi a non mollare. Tutta la reazione della gentildonna Santanchè fu un diluvio di sparate bugiarde su “questo governo che ha fatto più di qualsiasi altro contro le mafie” e giù cifre di torbida fantasia ripetitiva. Neanche un sospiro, mezza parola di solidarietà per quei candidati a non improbabile morte violenta. E uno guarda quella bocca inesausta, ammira quel labbro sporgente, e pensa a un suo più coerente destino, a un uso più giocoso e innocente.
Pasquale Licciardello
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