Le parole della fortunata canzonetta cantata da Mina ai suoi tempi belli in duetto misto (lei canta, lui recita) con Alberto Lupo si sono presentate stamane alla memoria stanca di accumulare ricordi imposti dalla deriva politica italiana: come scacciarle, quando basta surrogare le azioni negate dal troppo poetico Lupo con le realizzazioni mancate nel chiacchiericcio retorico dei troppi politici-Lupo nostrani? Parole-promesse, parole-annunci, parole-progetti quante se ne vuole, fatti pochi, spesso parziali, spessissimo di pura ostentazione frega-grulli.
Il fenomeno è così eclatante da ispirare interventi più o meno autorevoli sugli inconvenienti prodotti in serie cumulative di opaco destino: oltre ai “classici” Stella e Rizzo, inesauribili pubblici ministeri di un tribunale, ahimè, tutto virtuale (e del tutto impotente a scuotere i verbificatori non stop), altre rispettabili penne si sono cimentate nella denuncia di questo slittamento verbalistico della politica italiota. E taluno si è provato a farne diagnosi storico-culturale non priva di suggestione: il nome che ci viene primo ai tasti è quello di Giovanni Belardelli, autore di un editoriale degno di attenzione: Dire quello che non si fa [titolo] Il festival italiano delle parole vuote [occhiello] (Corsera, 19 sett.). Eccolo, in stretta sintesi. “Molti anni fa un grande storico, Franco Venturi, definì il fascismo come il ‘regno della parola’”, definizione che “si applica altrettanto bene all’Italia di oggi, alla sua vita politica fatta sempre più di formule e di parole, di provvedimenti annunciati con grandi fanfare ma che poi si perdono nei meandri di Montecitorio o Palazzo Madama”. E ricorda proprio Sergio Rizzo che ha elencato parecchi di questi aborti e gestazioni congelate (Corsera, 10 sett.). Quanta eloquenza, per esempio, sulla famiglia, sull’imperativo etico di aiutarne le bisognose! E nei fatti? Poco, anzi “il sostegno effettivo dello Stato alle famiglie ha dimensioni risibili, soprattutto se paragonato alle misure messe in campo da Paesi come la Francia e la Germania”. Uguale destino ha frustrato il proclama su un’equa meritocrazia da introdurre nella scuola e nel mondo del lavoro: il merito è stato onorato soltanto “nel mondo delle parole”, mentre la realtà continua la sua indisturbata marcia su binari allotrii, “i legami politici, familiari, clientelari”. Andazzo favorito dalla pervasività del destino mediatico-spettacolare, che non è solo nazionale. Ma il “di più” che si registra nel nostro Paese è, forse, dovuto secondo Belardelli, alla nostra storia. Rifacendosi alle tesi di uno studioso francese, che divideva le nazioni europee in “classiche” e “romantiche”, collocando le prime nell’azione politico-militare svolta per secoli dalle grandi monarchie, e le seconde nella prevalenza del ruolo culturale, che ne farebbe “un’opera di vera e propria invenzione artistica e letteraria”. Su queste ipotesi, le prime nazioni sarebbero “figlie della realtà”, le seconde “figlie della poesia”. Belardelli, infatuato di questa ardita formulazione, non esita a collocare l’Italia-nazione nella categoria poetica, come “figlia di una lunga storia culturale venuta a contatto nell’800 con l’immaginazione del nazionalismo romantico”. E rinforza la tesi con queste parole di uno storico del nazionalismo: “La messe raccolta da Cavour è quella seminata da Dante”. Di deduzione in deduzione si arriva a una diagnosi sull’oggi parolaio: “L’Italia è nata insomma dalle parole, e non avrebbe potuto essere altrimenti giacché le genti della penisola avevano avuto una storia assai diversa da quella di Francia o Inghilterra. Ma l’esser nati in questo modo ha probabilmente segnato la nostra cultura, ha subito lasciato in eredità al Paese una propensione a vivere prigioniero della dimensione fatata delle parole. Una propensione che le stesse grandi ideologie del ‘900, per definizione poco permeabili ai dati di realtà, avrebbero successivamente alimentato”. Saremmo, allora, condannati a subire una falsa “cultura del fare” di tipo arcoriano o una cultura del riformismo altrettanta parolaia? No, risponde la conclusione: basterebbe una leadership politica capace “di recuperare un rapporto con la realtà e affrontare davvero le grandi questioni italiane”. Epilogo strappato coi denti a un coerente “pessimismo storico”, ma non per questo sorridente al suo contrario: “Purtroppo, almeno per il momento, di leader politici che possiedano una tale capacità non se ne vedono molti”
Un’ermeneutica suggestiva, questa carrellata cultural-diacronica, ma non “verità dimostrata”: un’ipotesi, in sostanza, che coglie qualche elemento della realtà, ma non tutta la realtà. La quale, in ultima analisi, trasferisce tutti i possibili elementi del quadro storico-ambientale davanti all’istanza estrema del dna, versione scientifica del vecchio Fato: come dire, il filtro determinante di ogni condizionamento esterno. E quel filtro cromosomico è rigorosamente individuale. Anche quando dispone nel soggetto una tendenza mimetica spiccata (magari fino a uno zelighismo incontrollabile).
Il che viene a dire che la passione verbalistica dei nostri politici non ha, nelle cause storico-culturali, decisive spinte ma soltanto facilitazioni alla personale tendenza genetica. Come riportare al Risorgimento la furbastra produzione verbale del rematoso e fantasioso Berlusconi? O quella ottusa e sempliciona del beato Bondi che pende dalle labbra e dal cipiglio del suo Capo-idolo? O l’altra, tagliente e cavillosa, del riciclato Cicchitto? Per non parlare del raschiato verbizzare di quel Mefistofele in licenza terrena che tenta di fare il ministro della Difesa inchinandosi toto corde al verbo transatlantico. O del suo gemello ideologico Maurizio Gasparri, che gli dei ce ne liberino! Naturalmente, il discorso si estende all’intero panorama politico, al cui interno, peraltro, s’impone il distinguo e del più e meno.
Un caso rumoroso di parole-azzardo di fronte alla realtà è da mesi in esecuzione incalzante mentre scriviamo (fine settembre): il duello Berlusconi-Fini. Una divaricazione politica sopraggiunta sulla spinta di due dna divergenti, tra i quali la vicenda-lite ha mostrato come possibili solo accordi di corto respiro e complicità di rimozioni a tempo (destinate, cioè, ad esplodere prima o poi). Berlusconi viene da un mondo dove la personalizzazione estrema è moneta corrente: gli affari, l’economia in grande, l’interesse privato e via tacendo (su altre spinte rivelate da pentiti attendibili, e sanzionate, nel “collaboratore” Dell’Utri, da condanne pesanti). Poteva, il Berlù politico, uscire da quella stretta genetica che lo ha portato all’esperienza dei grossi affari? Non poteva, non può, non potrà mai. Ed ecco il parolaio instancabile, il gonfiatore dei piccoli passi a glorie epocali (Napoli spazzatura, l’Aquila sisma, ecc.). E naturalmente l’interesse pubblico sentito come un diverso affare privato, le regole come fastidiosi lacci e laccioli, lo Stato, insomma, e le sue pertinenze, centrali e periferiche, come una delle sue aziende da perfezionare. E la magistratura? Una vera disgrazia, una patologia da curare con farmaci e chirurgia. E via con le parole “alate” lanciate al vento mediale, e avanti con leggi ad personam millantate come servizio collettivo e igiene di una democrazia da aggiornare migliorando.
La crisi con Fini è stata, per mesi, il terreno più fertile per la mala pianta delle parole al vento: insulti, accuse di tradimento e ingratitudine, persecuzione mediatica da parte del premier e dei suoi devoti; rigore formale, rispetto della carica nel presidente della Camera, coerente con la sua conversione democratica, ma non senza qualche arrière-pensèe sul futuro non lontano del Fondatore al tramonto. E quante oscillazioni! Titoli del 1° settembre avevano questa sonorità: “La linea del premier: basta attacchi a Fini”. E in subordine: “slitta la convocazione del collegio [dei probiviri] che dovrà giudicare Bocchino, Briguglio e Granata”, cioè tre dei cosiddetti falchi finiani. Tra molla e tira, sul “processo breve” e altra carne al fuoco, si arriva a questi contrari titoli del 19 settembre: Berlusconi torna a sferzare Fini: dissennato, Italia più debole alla Ue. Ma il titolo dice poco: alla kermesse di Taormina con La Destra di Storace, e tanti nostalgici delle glorie rosso-sangue fasciste, s’è consumato un allegro tiro al bersaglio contro il “cornuto” Fini (così lo gratificò un “reduce di Salò”. Col Berlù ridacchiante di approvazione, che lamentava il suo calo di popolarità all’estero per colpa del cofondatore e della sua “operazione dissennata di fine luglio”. E annunciava, orgoglioso, il premio per il fiero e fedele “destro” catanese Nello Musumeci, “collettore di voti”, promosso sul campo a sottosegretario, mentre il ferrigno Storace sfotteva così: “Questa nostra casa non sarà venduta a nessuna società delle Antille”, tirando in ballo quel pomo della discordia in domo Finii che è l’ex dimora di An finita nell’uso (evoluto a sospetta proprietà) del “cognato”. Né si ferma, Storace, anzi canticchia: “Montecitorio, Montecarlo, Montezemolo: arrivano i nostri del terzo polo”, mentre il Berlù “ride a denti stretti”. Fini, signorile: “io serio, non commento” e i suoi fedeli raddrizzano la “lettura” macheriana dei sospetti alleati verso l’Italia: non è colpa di Fini, ma dell’ambigua politica estera del premier, tutta baci e miele con Putin e Gheddafi. Il premier minaccia elezioni in primavera? Bara, secondo Italo Bocchino finiano duro e puro: “sarebbe il suo suicidio perché senza maggioranza al Senato a Palazzo Chigi ci andrebbe Tremonti”. E forse Fli “tornerebbe al governo”.
I titoli del 23 settembre sono un seguito coerente di questo processo di sgretolamento: le parole in libera uscita volano a stormi, incuranti della realtà: Giustizia, rottura Berlusconi-Fini. Svampa, alla Camera, il “caso Cosentino”: lo spericolato don Nicola è sotto inchiesta per collusione camorristica; si vota sull’utilizzo giudiziario delle intercettazioni rivelatrici: concederlo o no? i finiani sono per il sì, ma la votazione dà un no parcamente maggioritario, prova di fellonia nel “campo di Agramante”. Incuranti del sospetto mercato, i “certosini” cantano vittoria. Ma il duello sulla giustizia si riaccende, e Fini, bersaglio di una nuova ondata di fango sulla casa montecarlina (ora attribuita al Tulliani come proprietà dai fogliacci killer di Feltri, Belpietro e Sallusti), sbotta: “Basta, questa è una porcata, le trattative finiscono qui”. Dietro le “rivelazioni” ritenute false da Fini si celano operatori sospetti: si sente forte puzza di complotto a più teste, pagato dal miliardario ridens di palazzo Chigi. Scatta lo sdegno dei sospettati e la difesa d’ufficio dei capi: insomma, ancora parole-vento (cfr. Corsera 23 sett., dove si leggono interviste ai sospettati del “dossieraggio”e un editoriale di Massimo Franco dal titolo-altalena: Tra sollievo e veleni). In verità, veleni molti, sollievo poco. Ad Annozero il fedele Bocchino ostenta un’aggressiva sicurezza “documentata” sul complotto definendo una “patacca” la lettera inviata da un ministro del ministato isolano intestato all’innocente Santa Lucia. Ma il Corsera del 25 può mettere al centro pagina questo titolo: “La lettera su Tulliani è vera” Parla il ministro di Santa Lucia. Per il governo caraibico la casa di Montecarlo è del cognato del presidente della Camera. Intanto “Fini annuncia un video” a sicura smentita dell’accusa. Così l’incendio cresce in alimenti e scintille, i media più seri “scrivono” sdegno e dolore per il degrado della nostra vita politica. E capita che qualche editorialista si lasci andare al trotterello retorico fino alle iperboli ripetitive e sganciate dalla realtà storica: la presente baruffa sarebbe “una delle pagine più torbide e avvilenti della politica italiana”, e fin qui potrebbe anche andare. Ma Pierluigi Battista sviluppa l’idea aggiungendo questo azzardo cronistico: “mai come oggi macchiata da sospetti, guerre di dossier, insinuazioni, denigrazioni, lotte di potere che finiscono per infangare, insieme, ruoli istituzionali e apparati di sicurezza”. Questi ultimi, si intuisce, oggetto di calunnie. Poveri innocenti! Non basta: quella “opinione pubblica” troppo adornata di sensibilità non solo sarebbe “frastornata da tutto ciò che è accaduto e sta accadendo”, ma sarebbe addirittura “allibita e sgomenta” per questo “avvitarsi sempre più disinibito nei gorghi delle rappresaglie, dei colpi bassi e dei massacri mediatici”. Il trotterello avanza, s’impenna, fra bagliori sulfurei e balzi di smemorata coscienza etica fino a questa magnanima conclusione: “Non resta che tornare indietro e riacquistare, tutti, un profilo di dignità. Per quanto malandata, l’Italia non merita un trattamento simile”. Ed ecco il suggello finale all’enfasi parolaia: quella opinione pubblica sofferente è una concessione alla fantasia che fa il paio con questa Italia che “non merita” maltrattamenti. Ecco, insomma, un campione esemplare di parole sconnesse dalla realtà. La presunta opinione pubblica sofferente è, in verità, una sparuta minoranza impotente. L’Italia è malandata per ben altre piaghe e lo scompiglio attuale fa ridere rispetto all’era democristiana, con le sue stragi terroristiche, il controllo mafioso virente e poco disturbato, lo Stato che con i capi mafia tratta, l’epopea scialacquante di tangentopoli, i servizi segreti “deviati” fino al delitto. E via seguitando. Né l’odierna è salva da ben più gravi magagne (più volte segnalate da chi scrive) che le presenti risse. .
Ma ritorniamo alla singolar tenzone Berlù-Fini. Il promesso video finiano è venuto alla luce: vi si staglia un Fini frenato: dal dubbio sulla lealtà del “cognato”, dalle divisioni interne al suo Fli, dal conseguente indebolimento della sua caratura politica. Indi, promesse e proposte: si dimetterà dalla carica se risultasse bugiardo l’omonimo parente pasticcione. Che, peraltro, continua a negare, sostenuto da un avvocato che attribuisce la proprietà della diabolica casa a un suo cliente, liberando il “cognato”, ma non basta a Fini per sentirsi al sicuro dagli effetti del complotto. Intanto offre al Berlù tregua e collaborazione a difesa del programma e della legislatura.
I titoli della stampa ruotano veloci: la mezza euforia del 27 ridiventa, nel 28, incertezza. L’atteso segnale distensivo da Arcore non arriva a Fini, mentre l’Fli gli si teglia a fette: al cipiglio tosto del Bocchino in campo (e, dietro di lui, degli altri duri, Granata Briguglio ecc.) fa eco dissonante il tubare delle colombe (Baldassari, Menia, Motta, Viespoli) in attesa del “Silvio 29. 09”. Una “nota” colombina diffusa con piglio disinvolto disturba, anzi irrita senz’altro Fini, che replica, dubbioso: “Nulla è scontato, tutto può succedere”. La sintesi problematica si chiarisce in questi termini: “Certo noi non votiamo quello che viene scritto dalla Lega e dal Pdl senza consultarci”. E’ forse chiedere troppo aspettandoci di essere consultati? No, fanno eco i “falchi”. Forse sì, masticano le colombe. “ni”, sembrano pigolare i devoti trepidanti. Che vorrebbero evitare il botto irrimediabile. E Fini li scuote: “Questo è il momento di essere compatti, potrebbero arrivare altri attacchi alla mia persona, ma noi dobbiamo restare uniti”. E Adolfo Urso rafforza: “Deve apparire in qualche modo che non siamo figli di un Dio minore”. Insomma, l’Fli non vale meno del Pdl residuo, e nemmeno l’Mpa di Lombardo”. Come farebbero senza “la terza gamba” (appunto, l’Fli) “a rendere stabile ed efficiente la maggioranza”? Ma intanto la Certosa tace. E il suo piccolo nume suda fatica a stendere il testo per il gran giorno di domani, 29. 09. E alimenta i sospetti col suo mutismo non casuale. Insomma, l’aria politica è più mobile e sadicamente ludica di quella meteo, che così spesso burla i tecnici del suo controllo. Non bastasse il grande capo, a seminare sospetti dentro l’agitato Fli ci si mettono anche le trepide colombe (immacolate, come le loro piume in vista o con qualche macula nera sotto quel candore?) ad alimentare fuocherelli di truci sospetti: è del tutto fuori luogo (pensano) temere che il Bocchino furens abbia il retropensiero di far fallire la trattativa? E “per questo alzano tutti i giorni l’asticella”?
Ma la situazione è più mossa che mai: la spinta dei sospetti non risparmia nessuna ipotesi. Il giorno sembrava chiudersi nella riposante certezza della buona volontà reciproca (niente “fiducia”, solo mozione, eccetera), invece a non tardissima sera ricompare la sfrattata fiducia. E’ l’effetto paura, insinuano gli avversari dai loro portavoce: il premier non è sicuro della lealtà degli acquisti (“al mercato delle vacche”, insinuano nell’area centro-sinistra). Né, tantomeno, dei ribelli del Fli. E stamane i giornali sparano titoloni a tutta pagina. Il premier mette la fiducia: scelta di chiarezza (Corsera, pg.). Ridondante, il maggiordomo di Palazzo Paolo Buonaiuti precisa al superlativo logico: “E’ una scelta di assoluta chiarezza e di totale trasparenza”. Gli fa eco un altro maiuscolaro: l’occhio più che mai lampeggiante, Ignazio la Russa assicura che quello del Berlù sarà un discorso “di alto profilo”, cioè da premier “innamorato del bene dell’Italia e degli Italiani”. Perché la fiducia? Ma è ovvio: per “offrire agli italiani scelte chiare”, eroicamente sfidando il rischio di mancare il bersaglio di un maggior numero di consensi. Dubbio che non affligge il ministrino degli Esteri, Franco Frattini, il quale, fiducioso, assicura: “Abbiamo fatto i conti, avremo la fiducia anche senza i finiani”. Una vera pioggia di voti: “avremo alcuni voti che già c’erano, altri che tornano a casa, altri che si aggiungono”. E per rintuzzare le insinuazioni dei maligni che parlano di “calciomercato”, aggiunge: “Non abbiamo né proposto, né offerto, né accettato spostamenti in cambio di qualcosa”. Vedi aderenza verbale alla realtà fattuale! A chi ciancia di “debolezza” e paura, il ministro dell’Interno, Maroni, sbuffa: “ma quale debolezza, semmai è il contrario, è un atto di correttezza istituzionale nei confronti del Parlamento”. Meno convinto l’altro leghista, Calderoli: “Fino a ieri dicevo cinquanta e cinquanta, oggi dico venticinque che si va avanti e settantacinque che si va ad elezioni”. Italo Bocchino non enfatizza: giudica “la scelta della fiducia” “un fatto positivo perché rende il passaggio parlamentare più chiaro”. Ovvio che una decisione pro o contro dell’Fli dipenderà “dai toni e dai contenuti delle parole del premier”. Ovvio.
I famosi cinque punti dello storico discorso sono questi: la giustizia, il federalismo, il Mezzogiorno, il Fisco, la sicurezza. Per ognuno di essi, mirabilia seccundum quid: riforme risorse rimodulazioni e riguardi (meno tasse) tutte “r” da verificare con altre di asprigno rigore: futuro serietà coerenza aderenza (alla realtà).
E venne il giorno destinato alla Storia. A precedere l’attesissimo discorso del premier sale all’italico cielo divertito qualche voce dal sen fuggita dello stesso autore: disgustato dall’intonation del testo troppo conciliante, quasi umile, imbanditogli dai consiglieri, il Berlù storce il muso ed esterna in questi eroici termini: “Vorrebbero che leggessi tutte queste ipocrisie. La politica è ipocrita”. Un mezzo benservito ai Letta Buonaiuti Cicchitto e simili autori del testo. Ed eccoci, finalmente, al discorso: pacato, ma non impaurito. Una cascata di promesse, more solito sui 5 temi. Le repliche al Verbo sono quanto mai varie, con talune verità urticanti (Casini, Bersani...), un girovagare cauteloso di colombelle sparpagliate; e un eccesso di verità pudenda tradotta in dipietrese: “Signor presidente, lei non è un capo di governo, ma lo stupratore della democrazia”. Il botto torse il volto del Bersaglio verso l’alto seggio della Terza carica, e Fini richiamò Di Pietro. Ma “non gli tolse la parola”, lamentò, poi, il Berlù. A volersi concedere un momento di ebbrezza goliardica, si può affermare che la seduta fu ricca di movimento e colore mediatico.
I commenti dei giornali hanno tutti il tono della Stampa, che mette nel titolone centrale questo paradosso: C’è la fiducia, ma si pensa al voto. A chiarirlo provvede il “catenaccio”: “Finiani e Mpa decisivi per Berlusconi”. E Bossi ritorna al suo estivo refrain: “Erano meglio le urne”. L’aritmetica gli dà ragione: il governo ha avuto 342 sì, ma con l’apporto dei “futulisti” (come La Russa chiamò i finiani). Il quantum richiesto era 309; senza finiani e Lombardo il governo ne avrebbe avuto 307. Ecco, allora, i commenti di strana apparenza ma di fondato movente: sulla Stampa Marcello Sorgi sviluppa in un chiaro editoriale questo titolo: Ha vinto eppure ha perso. Un segnale delle difficoltà in attesa è la dichiarazione di Fini: fondiamo il partito. Condita dalle riserve dei seguaci su giustizia, Sud, e via suonando. Insomma, il premier è un’ “anatra zoppa”: dipenderà da Fini e Lombardo. la campagna acquisti non lo ha liberato dall’incubo, e lui ce l’ha con i collaboratori che hanno sbagliato i conti.
Conclusione interrogativa: quanto durerà la risicata concordia discorde?
Paquale Licciardello
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