mercoledì 24 novembre 2010

Stato infetto e democrazie bacate

Che la storia d’Italia sia piena di misteri è, da tempo, un luogo comune onorato da ogni ricerca storica degna del nome. Che ognuno di questi misteri sia un covone di crimini è ovvia constatazione della ricerca e della pubblica opinione attenta ai fasti e nefasti del mondo. Dello stesso grado di veridicità è l’induzione di una presenza attiva dello Stato (nel senso di certi uomini di qualche sua struttura) in alcune delle trame criminali sfociate nel delitto. Né è meno ovvio che la ricerca della verità non sia gradita da gran parte delle classi dirigenti: uomini di governo, responsabili delle istituzioni strutturali, figure degli apparati di sicurezza socio-politica, servizi segreti e complementi vari dell’autodifesa statale. Ma neanche eminenze della vita economico-finanziaria gradiscono l’“accanimento” nella ricerca della verità, venendo a spalleggiare, così, gli avversari politici delle verità pudende, e tutti gli altri che, in argomento, hanno la proverbiale coda di paglia.
I misteri d’Italia hanno radici e proliferazioni lunghe e frondose: inevitabile, dunque, che se ne restringa l’ambito di riferimento. Per esempio, cominciando dall’immediato dopoguerra della seconda ecatombe infernale. Tra gli anni ’44-47 una serie di omicidi misteriosi eliminarono una folta quantità di sindacalisti e militanti dei partiti socialista e comunista. Il culmine plurale di questa vera e propria strategia del terrore si ebbe nel tragico 1° maggio del 1947 con la strage di Portella della ginestra: uomini, donne e bambini attratti in quella spianata da pacifici comizi celebrativi della ritrovata festa del lavoro vennero falciati da raffiche di mitra provenienti dalle colline circostanti. Ebbene, non esiste ancora oggi una versione ufficialmente acquisita e riconosciuta di quei crimini. Ricerche di studiosi indipendenti hanno raccolto elementi bastevoli a formulare una versione convincente di quei tragici fatti: in quegli anni torbidi d’incertezze politiche un imperativo dominava le apprensioni degli Stati Uniti: impedire che il risveglio socio-politico delle forze popolari portasse l’Italia, e quindi la sua grossa porzione insulare, la Sicilia, nell’area del comunismo sovietico. Indi, terrore e stragi a gogò. Il tutto, ovviamente, in nome della “bella, immortal, benefica fede” democratica. E vaticana. Basti un solo titolo tra i non molti che hanno fatto luce su quelle infamie: Giuseppe Casarrubea, Storia segreta della Sicilia. Dallo sbarco alleato a Portella della ginestra, Tascabili Bompiani, 2005. La vasta documentazione di prima mano, in gran parte nuova, e la congeniale Introduzione di Nicola Tranfaglia (dal titolo incisivamente allusivo: Anatomia di una strage con molti colpevoli), garantiscono ulteriormente la sostanziale autorevolezza della meritoria fatica.
Naturalmente, anche la vicenda del Bandito Giuliano rientra in questa logica criminalmente realpolitica. Se ne sta riparlando in questi giorni, e i media assolvono festosamente il loro compito. E’ venuta fuori perfino l’ipotesi di riesumare i resti del bandito-fantoccio per controllarne l’identità: sì, si dubita anche della “autenticità” del cadavere. E i familiari sono in fermento. Giuliano fu un facile strumento nelle mani delle stesse forze eversive, italiane e straniere, che lavoravano con le stragi terroristiche: residuati fascisti, di Salò e della diaspora post-Salò, tutti protetti da certi ufficiali americani impegnati (con discrezione, si capisce, ma una discrezione piena di buchi) nell’impresa storica di arginare, respingere prevenire il dilagare della “peste comunista”. E, con Giuliano, il cugino Pisciotta, al quale si attribuì il tradimento omicida del bandito, che consentì alle forze dell’ordine di sorprendere e uccidere in uno scontro il “terrore di Montelepre”: insomma, una bella storia, ma tutta inventata. Tranne i morti ammazzati: con proditorio attacco militare, come Giuliano (o il suo “pupo” sostitutivo), o col silente caffè al cianuro (come Pisciotta).
Il torbidume al sangue innocente dei fatti appena richiamati, si ritrova anche negli eventi più freschi (ma pur sempre “maggiorenni”, se hanno raggiunto i 18 anni!), come le stragi di Capaci e Via D’Amelio, cioè (sia detto per i giovani poco informati) l’eliminazione dei giudici antimafia Giovanni Falcone (23. 05.’92) e Paolo Borsellino (19. 07. ’92), con inclusi gli uomini delle scorte (e la moglie di Falcone). Nessuna verità piena e solare, nei due casi. Né, tantomeno, sugli attentati, anch’essi stragisti, di Firenze, coda dell’estate ’92 e seguito targato 1993, più quelli, contemporanei, ma, casualmente incruenti, di Roma e Milano.
Anche per questi crimini, indizi, rivelazioni di pentiti (Spatuzza e altri), testimonianze orali e documentali di Massimo Ciancimino stanno svelando verità pudende sugli accordi Stato-Mafia e conseguenti complicità di alti ufficiali dei carabinieri e di agenti segreti con Cosa nostra. Massimo è figlio di don Vito Ciancimino, famigerato sindaco mafioso di Palermo eroe nero della sua cementificazione selvaggia (il cosiddetto “sacco di Palermo”), amico e complice “strutturato” dei capimafia, prima dei Bontate e soci, poi di Totò Riina e Bernardo Provenzano. Il rampollo Ciancimino era messo al corrente dei movimenti paterni dal genitore in persona, e perciò possiede documenti probanti (il famoso “papello”, tra l’altro), ha mostrato di non aspettarsi vantaggi dalle sue rivelazioni, eppure la professionale cautela dei giudici (Ingroia in testa) nel valutare le rivelazioni di Massimo e dei pentiti viene amplificata e storpiata dal coro arcoriano, compatto nel lanciare calunniose offese ai collaboratori di giustizia. E, implicitamente, taciti “consigli” agli inquirenti. I pentiti e Massimo sono tutti bugiardi, c’è dietro di loro un comitato mafioso con un preciso piano diffamatorio puntato contro la cristallina lealtà di galantuomini onestamente inseriti nelle istituzioni democratiche. Se si chiede quali sarebbero questi specchiati campioni di coerenza morale e squisitezza democratica saltano fuori, prima i nomi del senatore Dell’Utri, del colonnello (oggi generale) Mori, dell’ex ministro (ed ex vice presidente del Csm) Mancino, più quelli di alcune figure minori di recente acquisizione nel gota delle eccellenze. E perfino il riverito nome dello “stalliere” Vittorio Mangano, “guardiano” delle innocenti stalle di Arcore definito dal senatore “un vero eroe”. Come si presentano questi signori alla pubblica opinione e alla solerzia inquisitrice dei magistrati? Dell’Utri è stato già condannato due volte (primo grado e appello) come mafioso, Mori ha negato e nega ogni responsabilità criminale, Mancino si dice altrettanto pulito e ignaro di trattative Stato-mafia. E così via per altre figure di minore spicco. Ma dietro questi nomi sta qualcuno e qualcosa di ben più grosso e sconvolgente: stanno l’immacolato testimone di ogni verità onestà capacità manageriale e politica, insomma il Cavaliere par excellence, don Silvio Berlusconi. Uomo della provvidenza, anche lui come il Duce, ma più e meglio di quello, finito male, secondo i suoi lecchini; nonché manager incomparabile, generoso elargitore di premi ai volenterosi (complici coscienti e ignari adoratori), premier–coraggio dalle mille risorse, e via intronando (per tacere delle escort, delle feste più o meno drogate, delle minorenni ispiratrici di “protezioni” costose). Ma dire Berlusconi significa illuminare la nascita, non solo di un vasto impero economico imprenditoriale, ma addirittura della cosiddetta Seconda Repubblica, con i suoi luccichii e le sue ombre. In sintesi, la tesi circolante fra pentiti e magistrati pur cautelosi, intellettuali non inquadrati nei reparti certosini, osservatori sensibili che fanno “due più due dà quattro”, studiosi che incollano al giusto posto i vari tasselli del puzzle, è questa: lo Stato ha trattato con i capi mafia Riina e Provenzano, ne ha accettato le condizioni offerte per la cessazione delle stragi, Dell’Utri, mediatore delle trattative, ha svuotato nelle casse del Cavaliere una barca di soldi, così da finanziargli la “discesa in campo” e il relativo successo politico. Dal quale nasce la Seconda Repubblica e le sue implicazioni malamente rinnovatrici che abbiamo potuto ammirare negli ultimi tre lustri. Tutto questo è venuto ufficialmente fuori nella motivazione della sentenza d’appello contro il Senatore, uscita in questi giorni. E subito commentata dai media, “rigettata” dagli amici, respinta dal Bersaglio. Il quale si sta sbracciando a negare le evidenze registrate in quel documento concedendo interviste a destra e a manca. La sintesi del suo “pensiero” è in questo giudizio che dovrebbe mostrare la “illogicità” della sentenza: “La sentenza è illogica” perché la sospettata alleanza fra Dell’Utri e i capi mafia non sarebbe stata sfruttata a pieno dal terzo polo dell’intreccio, cioè Berlusconi. Illazione che non sfiorò neppure i giudici quando scrissero questa “motivazione”: Dell’Utri “ha svolto, ricorrendo all’amico Gaetano Cinà e alle sue “autorevoli” conoscenze e parentele, un’attività di mediazione quale canale di collegamento tra l’associazione mafiosa, in persona del suo più influente esponente dell’epoca, Stefano Bontate, e Silvio Berlusconi, così apportando un consapevole rilevante contributo al rafforzamento del sodalizio criminoso al quale ha procurato una cospicua fonte di guadagno illecito rappresentata da una delle più affermate realtà imprenditoriali di quel periodo, divenuta nel volgere di pochi anni un vero e proprio impero finanziario ed economico”. Finita l’epoca dei Bontate, Teresi eccetera, tocca ai nuovi boss presentarsi all’incasso presso l’imprenditore fortunato. Ancora la motivazione giudiziaria con altre piccanti rivelazioni: “fin dalla metà degli anni Ottanta, Riina, oltre al preminente interesse economico di carattere estorsivo, intendeva agganciare l’imprenditore Silvio Berlusconi per giungere fino all’onorevole Bettino Craxi, uno degli uomini politici italiani più influenti e rappresentativi del tempo, essendo a tutti nota l’amicizia che legava i due” (riportiamo dal Corsera del 20 novembre). Per Dell’Utri questa valanga di accuse, puntuali e circostanziate, sono soltanto fantasie di menti malate, meglio connotabili con linguaggio spiccio e sprezzante: “Le debbo ripetere [dice all’intervistatore] che sono ‘minchiate’? Dobbiamo sentire echeggiare sempre le stesse infamie? Ci rendiamo conto che stiamo parlando di cose vecchie di trentasei anni? Uno come fa a difendersi da accuse ricostruite dopo una vita?”
Dei molti commenti dei berlusconiani alla sentenza (7 anni di carcere), il più dei quali prevedibilmente cretini per eccesso di cecità obbligata, non vale la pena di parlare. Salvo, forse, per il “dolore” di Daniele Capezzone, portavoce del Pdl, che sospira questa dichiarazione proiettata su un destino storico aere perennius: “E’ una sentenza ingiusta che ci addolora, speriamo che la Cassazione sia più coraggiosa”. Sperare non è proibito. Al più, può essere spudorato. Ed entrare in una consuetudine ferrigna in quel di Arcore. E poi, chissà?, si vocifera che in Cassazione siedano anche frammassoni: saranno impermeabili alle insinuazioni amicali? (si staranno chiedendo in quel di arcorlandia.
Fra i commenti delle opposizioni (prevedibili al dettaglio), ricordiamo soltanto l’appello di Di Pietro: “Adesso che anche le sentenze parlano di rapporti ravvicinati fra mafia a premier, speriamo che si trovino 316 parlamentari che lo sfiducino”. Ahimè, non sentiamo salire altro che un sospiro scettico dal fondo delle nostre cumulate delusioni storiche: “campa cavallo!”
Quanto all’olocausto che ha tolto di mezzo due ostacoli tosti al successo del progetto, cioè Falcone e Borsellino, molti indizi già da tempo indicano nei Servizi segreti cosiddetti deviati i pupari zannuti della soluzione tragica. Eccone qualcuno. Falcone non spargeva ai quattro venti giorno ora percorso dei suoi spostamenti, e negli ultimi tempi li cambiava all’ultimo momento. Come fecero, i suoi assassini, a conoscerli? Stessa domanda, ed altre, per Borsellino, con la risposta che sembra collocarsi nel castello di monte Pellegrino, da cui si poteva controllare parte di via D’Amelio e relativa piazzetta. Di più: l’esplosivo usato per imbottirne la Cinquecento esplosa era in dotazione soltanto alle forze militari. Infine, il mistero della borsa scomparsa con dentro la famosa agenda rossa, rifugio degli appunti sensibili del giudice. Quell’agenda, vista in mano a un militare nel momento della perquisizione della macchina sventrata, sventola, in riproduzione e metafora, ad ogni annuale manifestazione pro veritate, che vede in campo il fratello di Paolo, la sorella e altri familiari, nonché le persone sensibili alla giustizia e al rispetto della vita umana.
Indizi, ricostruzioni problematiche, sospetti, e quant’altro converge con la comoda cautela del Giure (troppo onorato nei fatti procedurali, ma tradito nella sostanza reale che gronda sangue innocente), non permettono, ancora oggi, di sigillare con la parola risolutiva vicende criminali sconvolgenti per la storia umana del nostro Paese. Di tanto in tanto qualche voce si alza a chiedere verità, i giornali se ne occupano (recentemente è stato Veltroni a chiederla, a voce alta) ma presto la voce si spegne e la risposta non arriva. E c’è da temere che non arriverà mai: troppi nomi di peso vi sono implicati, troppe relazioni pubbliche e istituzionali vi sono coinvolte. E forse (magari senza forse) molte conseguenze pesanti ne scapperebbero fuori. Non è del tutto escludibile che vi siano coinvolte perfino potenze straniere. Come nel caso Moro, sacrificato cinicamente ad una torma di menzogne gestite dall’esterno, con in mezzo un oceano continentale e un fiume casalingo, ma che separa due Stati. Si tirò in ballo, come alibi, l’inviolabilità dello Stato, lo stesso Bene sacro che si era tradito decine di volte. Questo mitico Stato non poteva trattare con dei terroristi! E dunque si fa luce sulla posizione vaticana rutilante nelle dichiarazioni di un alto prelato: “E’ meglio che muoia un uomo solo piuttosto che crolli lo Stato”. Era la risposta saettata in faccia a tre presuli che si offrivano come ostaggi alle Br per salvare Moro, ed erano già entrati in contatto con quei terroristi tragicamente illusi. Ingenuamente, chiedevano il permesso ufficiale al loro gesto generoso. Ma quel grande capo suonò il no perentorio che troncava ogni discussione. E spiega anche perché papa Paolo VI fu costretto a chiedere la liberazione del prigioniero “senza condizioni”: cioè nella sola maniera inaccettabile per quei sognatori che inseguivano il riconoscimento di “forza politica” dallo sputtanatissimo Stato italiano. Risuonano ancora le dolenti parole del Prigioniero: “Anche il papa ha fatto pochino”.

Pasquale Licciardello

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