Cominciamo da quella che ormai possiamo definire “La guerra libica”. A quasi due mesi dall’inizio come rivolta interna della nostra ex colonia le nostre poco ottimistiche previsioni si godono quotidiane (quanto non desiderate) conferme. Avevamo capito subito (non ci voleva molto acume) che Gheddafi non era (non è) il supposto tirannello sbruffone che si possa scalzare dalla robusta sella del quarantennale potere con il più o meno improvviso (e incauto) entusiasmo guerriero di una parte della popolazione subito qualificata (anzi amplificata) con il pomposo nome di Popolo (giusto con la maiuscola che la sua grafia sottintende nel giudizio di chi pronuncia quell’ambiguo sostantivo). E così, tra alti e bassi nel serpentone dei giorni di fuoco, tra salti di euforica gioia e cadute di cupo sconforto in partibus infidelium, o campo dei rivoltosi speranzosi, siamo arrivati all’ultimo giorno di marzo con il seguente genere di titoli e testi nei reportage della stampa: Un’altalena di sangue in mezzo al deserto. “Armare o non armare i ribelli, questo è il dilemma. A Washington e a Parigi se lo pongono con la calma imposta alle grandi diplomazie. Qui, dove gli eventi si succedono travolgendo i ragionamenti razionali, il problema assume un’urgenza angosciante. Le truppe di Gheddafi hanno recuperato in poche ore quasi tutto il terreno che avevano perduto durante il week-end” (La Repubblica). I ribelli potranno consolarsi con quest’altro titolo: Libia, Obama pronto a dare armi agli insorti? A parte il fatto che il “pronto” dei vertici politici vuole essere preso col beneficio d’inventario delle decisioni sacre, viene ai tasti, dal fondo della legittima curiosità, una domanda: tutto qui l’effetto del fragoroso tambureggiamento a base di missili apocalittici spiegato per giorni e giorni sul corredo militare del Raìs? Senza dimenticare il dettaglio, non certo euforizzante, delle vittime civili denunciate non soltanto dal governo come effetto secondario non voluto (ma, volenti o nolenti, messo in conto dai “picchiatori” celesti). Questo sanguinoso tira e molla si corona di false notizie e boatos a produzione continua: da qualche giorno si parla di trattative fra i figli di Gheddafi e certi governi europei, senza che si avverta odore di verità garantita. Altro indotto del conflitto è l’attenzione effusiva del giornalismo di commento etico-psicologico di cui ci dà un esempio Pierluigi Battista sul Corsera del 3 aprile: “E la guerra guerreggiata? Sprofonda nell’indifferenza, nel disinteresse, nella noia. Non succede solo con quella di Libia. Ormai, corazzati di cinismo e assuefazione, non facciamo quasi più caso ai nostri soldati che perdono la vita nella missione in Afghanistan. Ma con la guerra di Libia, a un passo da casa, l’attenzione è tutta concentrata sul molo di Lampedusa, sui barconi dei disperati, sulle tendopoli, sulle distinzioni sottili e insieme grottesche tra ‘profughi’ e ‘clandestini’, ‘rifugiati’ e new entry nella follia lessicale che ci assilla, ‘immigrati economici’. La strana guerra. Una guerra che non è una guerra. In Italia sostenuta da un governo che ce l’ha più con chi l’ha voluta, Sarkozy, che con chi dovrebbe temerla, il colonnello Gheddafi”. E così “il monopolio del neo-pacifismo” si trasferisce sulla destra: la stessa che dipingeva “Saddam Hussein come il nemico dell’Umanità”, il Colonnello come un padre di famiglia o giù di lì, tutt’al più un po’ severo. E, in ogni caso, non è facile disturbare un buon socio in affari. Quanto agli insorti, oltre alle difficoltà militari (che li spingono a sollecitare la Nato perché faccia di più in loro aiuto), subiscono pericoli di inquinamenti, e lo steso numero del Corriere li segnala: Tre generali e un qaedista. Chi comanda sugli insorti. La rivalità al vertice aumenta il rischio di infiltrazioni islamiste. I dubbi degli Usa, il pressing di Londra: “Armiamoli”. Come propone il ministro della Difesa inglese, Liam Fox, convinto che “La risoluzione delle Nazioni Unite permette di armare i rivoltosi”. Continuano, intanto, le “dicerie” su presunti incontri diplomatici dei figli di Gheddafi con diversi governi europei. Le ultime notizie a ridosso dello sperato invio del presente “spunto” suonano questa musica barocca (Corsera, 6 aprile): I ribelli riprendono a esportare il petrolio, Ma il leader militare accusa la Nato: “Misurata abbandonata alle forze del Raìs”. Tanto, fra titolo e “catenaccio”: fra testo e “fascette” si può raccogliere questa modulazione: “La Nato ci ha deluso. I suoi jet non sostengono le nostre truppe di terra”: così il Capo di stato maggiore dei ribelli, Abdulfatah Younis. Quanto all’Italia, si becca l’accusa (fondata) di “ondivaghismo”: Lo zig-zag della diplomazia italica. ‘Ondivaghi? Come tutti gli altri’. Così se la cava il mini-ministro Brunetta. Che si concede perfino una presa di euforizzante hegeliano: “Io la vedo così: il reale è razionale, in questo caso l’andamento ondivago è nell’ordine delle cose. Non sono stati ondivaghi Barak Obama, Muammar Gheddafi, altri Paesi europei? Noi che cosa dovevamo fare: tra denunciare il Trattato di amicizia italo-libico o confermarlo aveva senso una delle scelte?” “la ricostruzione” recita: “L’oscillazione è così evidente che latitano perfino le smentite”. E, per una volta, non si può negare alla situazione oggettiva l’indotto di questa oscillazione quasi inevitabile. Né giudicare fantapolitica l’ipotesi di una futura (si spera sia prossima) mediazione italiana. Al presente ci resta da registrare l’accusa rivolta al Raìs di usare “civili come scudi umani”. Credibile? Non incredibile!
Se dal terreno dello scontro fragoroso passiamo a quello dell’indotto civile non si trova molto da consolarci. Con buona pace del Burlone fantasioso che è venuto in Lampedusa a recitare il suo show auto-promozionale con la solita raffica di promesse spavalde e, in più, il gesto simbolico della casa acquistata in loco, per “diventare lampedusano”: come dire, l’ennesima bufala del Cavaliere Ciarla: nessun acquisto di casa o villa è avvenuto, né era possibile. Perché il dramma dei boat people magrebini che “assaltano” le nostre coste è tutt’altro che chiuso e concluso. Il movimentismo che sposta gli sfortunati pellegrini dai loro Paesi agli approdi europei, con la tappa obbligata sulla nostra isoletta soffocata dall’Eccesso non è in nessun caso una scampagnata eugenetica. E’ benignamente vero che alcuni di loro hanno ricevuto la pratica evangelica del rifocillare gli affamati, ma l’esito prevalente del disagio generale ha titoli meno felici, anzi di segno contrario all’esortazione sopra richiamata. E non soltanto dal naturale emergere del “precetto” biologico, mors tua vita mea. Il quale non viene esibito, certo, in chiare lettere, anzi mediato dal più umanistico appello “un poco ciascuno non fa male a nessuno”, non perciò è meno presente e operante, visto che quel tale appello non trova il doveroso e pronto riscontro nelle orecchie deputate a riceverlo. Il peggioramento della reazione all’inarrestabile flusso migratorio verso le nostre coste fermenta nelle cose stesse: nessuno, che non abbia la cecità dell’aspirante alla beatificazione, può eludere l’esplodere della paura e della sua coda aggressiva. Già la cronaca registra episodi eclatanti che acquistano anche il valore di sintomi e simboli: la fuga in piena dilatazione dei migranti concentrati nei centri di raccolta (tendopoli e recinti ben poco accoglienti) e il loro dilagare sul territorio con la violazione delle zone coltivate a spese della locale produzione di roba mangereccia: nei casi segnalati, arance e mandarini. I proprietari che hanno avuto largamente “alleggerita” la produzione, e sia pure dalla perentoria fame di quei raccoglitori coatti (come resistere al primum movens del nostro destino biologico?) si pensa che ne siano lusingati per l’involontaria applicazione di quel tale precetto evangelico? Ebbene, questa emergenza non è stata ancora affrontata con la grinta e la scienza necessarie: l’opposizione delle Province prevale sul limitato consenso delle poche volenterose, e qui l’appello costituzionale alla superiore autorità dello Stato non si è fatto ancora vedere. Anzi, il fenomeno si dilata talmente che ci regala addirittura il caso di un giovane migrante in preda a raptus suicida. Salvato da pronto intervento, ma sul futuro non si vedono ancora garanzie che non siano le derisorie promesse del premier istrione e le proteste delle organizzazioni umanitarie (“Medici senza frontiere” e Emergency) per le condizioni bestiali in cui languono gli sfortunati. Intanto l’Ottimista proverbiale che sgoverna l’Italia con la sua banda ministeriale di suonatori di piffero prosegue il suo giuoco elettivo di vantare successi e iniziative smentiti dai fatti e dalle dichiarazioni della millantata controparte: in fattispecie, la Tunisia. Per vari giorni Berlusconi ha recitato questo ritornello: abbiamo stretto un solido patto per rimandare quei migranti al loro Paese. Rispondeva quel governo: quando mai? E il presunto accordo fresco di giornata come la buona frutta risaliva la china di Crono verso un impreciso passato superato dagli eventi recenti. Oggi, finalmente, un accordo c’è, ma non nei termini (e nei costi) vantati dal premier: cresciuti i costi, dimezzati i vantaggi. Questa “prima intesa con la Tunisia” prevede “20 mila permessi temporanei a chi è già sbarcato in Italia”. Maroni tenta di mostrarsi soddisfatto, ma non può nascondere che “non basterà”. L’accordo prevede che “I nuovi arrivi saranno rimpatriati”. Ma la dispersione dei migranti evasi dalle tendopoli o da altro risibile “comfort” sul territorio, già sperimentata con successo, non agevolerà il controllo. Solo qualche giorno fa sui quotidiani si leggevano questi titoli: La fuga in massa dei tunisini dalla tendopoli di Manduria. E Mantovano gridò: “Basta con la logica del tutti al Sud”. E si dimise. EA riassumere le difficoltà implicite nell’accordo provvede un altro articolo del Corsera: Le fatiche di un’intesa debole: né date né certezze. Per esempio negativo, una delle tante rinunce “Il governo italiano ha dovuto accantonare l’idea di procedere al rimpatrio di massa”. Ci consoleremo con il conforto del ministro francese Fillon? Le sue parole ci sorridono: “Immigrati, l’Italia ha ragione […]è un problema europeo”. I fatti non ancora.
Né questo patto cancella la tragedia dei migranti in fuga da una patria inaffidabile e finiti in mare a migliaia, come ricorda, con dovizia di dettagli, un ampio servizio della Repubblica del 4 aprile che si annuncia in prima pagina con questo titolo Quei 500 fantasmi nel cimitero d’acqua, si apre con un cupo incipit e si sviluppa alle pagine 6-7: “Dai nostri inviati Attilio Bolzoni, Francesco Viviano, Lampedusa. Se non li vedono gonfi d’acqua e trascinati dalle onde, li chiamano ‘dispersi’. Mai partiti e mai arrivati. Non hanno una faccia, non hanno un nome, neanche li segnano da qualche parte”. Il titolo principale di pg. 6 recita: La storia. Cinquecento fantasmi sulle rotte della disperazione. “Quel mare è un cimitero” Negli ultimi venti giorni una strage senza fine”. Una rassegna a ritroso dei “precedenti” riempie due colonne: la prima comincia dal 2009 (naufragio del 31 marzo, 400 salvati, oltre cento i “dispersi” (idest, affogati) e finisce con l’ottobre del 2003, quinto naufragio: “Strage su un barcone di clandestini somali alla deriva da giorni sulla rotta verso Lampedusa. In undici muoiono per gli stenti, si salvano in 14, ma c’è il sospetto che altri corpi siano stati gettati in mare durante la traversata”. La seconda colonna riprende il 2003, giugno: ennesimo naufragio, ennesima strage, solita meta (mancata), Lampedusa. Altri naufragi, negli anni 2002, 1999, 1997, 1996: “La notte di Natale uno degli incidenti più gravi degli ultimi anni: 283 immigrati – d a India, Pakistan e Sri Lanka – muoiono annegati tra Malta e la Sicilia, dopo lo scontro tra il cargo libanese Friedship e la motonave Yohan. Lo scontro avviene a 19 miglia da Portopalo di Capo Passero (Siracusa)”. Il crudele salasso non salta, quasi, giorno: ieri un altro naufragio: “Lampedusa, affonda un barcone: 250 vittime, molti bambini (occhiello). Migranti, apocalisse in mare (la Repubblica, 7 aprile). Servizi alle pagine 34-35, con un intervento di Adriano Sofri (Quattrocento dollari per morire). E si auspica, in un ampio articolo di Carlo Petrini, Un impegno di tutti a ospitare i migranti. Un’idea nobile (per usare un aggettivo frusto), che, tuttavia, inciampa nella barriera sopra segnalata. Che si può scrivere anche in latino: Quo usque tandem? Est modus in rebus: e via seguitando. E allora, per allontanare al possibile il triste “adagio” del Mors tua vita mea, ci vorranno sforzi, scontri, liti, malintesi, esplosioni di egoismo alla Bossi e peggio (ché lui parla, ma altri, muti la pensano anche peggio: al cinismo di homo sapiens non c’è limite. Non di tutti e in tutti i suoi esemplari, ovviamente, ma a far la media, quella è la tendenza prevalente. L’unica soluzione tentabile è quella del limite condiviso: un po’ a ciascuno (come si diceva sopra). E, visti e letti certi sfoghi, anche questo limite della saggezza trova ostacoli. Mentre aspettiamo l’Orazio del XXI secolo c’è tempo per leggere qualche buon articolo sulle difficoltà di intesa fra nazioni della cosiddetta Unione europea. Quello di Sergio Romano è un excursus storico sui non sempre facili rapporti fra le nazioni battezzate ironicamente (?), Francia e Italia, protagoniste di un recente, non insolito, né ancora del tutto risolto, attrito di frontiera (la polizia francese che respinge i migranti passati in territorio francese al non-mittente italiano). La “Lettera alla Francia” di Romano, che esibisce un titolo già ironico, Un eterno tango fuori tempo (Corsera, 1° aprile), percorre brillantemente la storia dei variabili rapporti con l’Italia
. Altro titolo di non-gloria nazionale, le risse in Parlamento. La scompostezza è arrivata ad un grado di intollerabilità che fa temere un non-ritorno disastroso. L’intervento di Napolitano, meritevole quanto autorevole, è certamente un buon segnale: sottintende “ulteriorità” da scongiuro. Come escludere un eventuale futuro scioglimento delle Camere se la rissa continua ne pregiudica la regolare funzionalità? La Carta lo prevede, e l’incancrenirsi della situazione potrebbe rendere inevitabile quel gesto estremo. Ma qui bisogna parlare chiaro, dando “a ciascuno il suo”: scrivere dei buoni articoli dividendo la responsabilità in parti uguali fra maggioranza e opposizione non va bene, non rende giustizia alla seconda, non inchioda come merita la maggioranza. Che è sempre più spudorata nelle sue esose pretese di prendere a calci la normalità parlamentare, di sfidare fin la più scialba e paziente delle componenti oppositive: sovvertendo l’ordine dei lavori, presentando disegni di legge provocatori, usando urli e insulti da stadio (sia detto senza offesa per quei primatisti della rissa), il tutto a esclusiva difesa dell’indifendibile in punta di normalità legislativa e funzionale.
Pasquale Licciardello
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