martedì 24 maggio 2011

Assaggi di primizie sbilenche

Nella Repubblica.it del 19 maggio, sezione Rubriche, Carlo Galli espone l’etimologia della Parola sconfitta: “da sconfiggere, che deriva dal provenzale esconfire, a sua volta dal tardo latino exconficere: compiere definitivamente, consumare, finire). La situazione di chi è abbattuto, superato, vinto”. L’apparato erudito introduce, di fatto, la delibazione della sconfitta del berlusconismo condito di lega-bossismo. Delibazione è parola intraprendente, si è affacciata da sola, cioè senza essere evocata, alla nostra sorridente finestra, con fare civettuolo s’è offerta ai nostri tasti: eccomi! Sicuro di non poter essere imputato di stupro (non si sa mai, con i tempi che corrono!) accetto l’insinuante offerta: è forse meno, in rebus, di una delibazione il mini-saggio del Galli, intitolato Sconfitta? La facile risposta negativa schiumeggia giuliva fin dalle prime righe, un coltello che gira dentro la piaga dei non amabili avversari politici: “La sconfitta è il fallimento di un’azione dalla quale il soggetto si promette un successo, un guadagno, un beneficio, sia materiale sia psicologico o spirituale - in genere quell’incremento dell’io che è la vittoria. A seconda delle epoche, può essere quindi uno scacco del valore guerriero (nel mondo antico) oppure del calcolo economico (nel mondo moderno), oppure ancora dell’investimento su una determinata ipotesi politica (la sconfitta dei totalitarismi) o infine di un’intera esistenza (il paradigma è la radicale sconfitta di Edipo, ma anche le sventure di Giobbe, prima che Dio le faccia cessare). Può essere cioè l’esito di un errore di comportamento, lo smascheramento di un’illusione, ma può anche derivare dall’irrazionalità tragica del mondo, che non si lascia controllare e vincere, neppure dalle forze più potenti, dalle menti più brillanti, dalle migliori intenzioni, dall’agire più retto”. Ovviamente, nessuna di queste accezioni riguarda in toto la sconfitta qui in causa: nella quale non c’è traccia di quella variabile nobiltà o rispettabilità che si può trovare nelle versioni sopra convocate e in altre ad esse assimilabili: quella della poco santa alleanza Be-Bo, Berlusconi-Bossi rientra nel vastissimo calderone della forma più diffusa, “quella che deriva dalla superbia, da un distorto rapporto con la realtà, dall’estremismo che non conosce alcun limite e che viene quindi punito o con la sconfitta comica della rana, che si gonfia per essere grossa come il bue, e quindi scoppia per lo sforzo” (Fedro), o “con la tragica vendetta degli dèi per la tracotanza dell’uomo prometeico che, fidando nella propria fortuna e nei propri passati successi, non sa fermarsi e – presumendo di poter sfidare il cielo – viene accecato dalla divinità, che lo rende incapace di vedere il pericolo, destinandolo così alla sconfitta, tanto più rovinosa quanto più in alto era salito il superbo”.
L’asse Be-Bo e le sue rogne. Forse l’asse Be-Bo non merita neppure quest’ultima versione della sconfitta, ma certo è quella più vicina al napoleonismo mercantile del Be e al caporalismo territorialistico del Bo. Dopo una pausa di riflessione preparatoria il Be torna alla ribalta e rimastica il vocazionale ottimismo urbi et orbi. Ultimo (al momento) sbocco di tanto pugnace zelo è il sequestro di cinque canali televisivi (2 Rai e tre Mediaset) per inondarli della sua faccia e del suo verbo, cioè di due mummie che fingono movimento e sviluppo offrendo la medesima zuppa di formule, mimica e parole in libertà (d’insulto). Chi ha sperato che la figuraccia elettorale (che lo ha umiliato perfino nella sua roccaforte meneghina) potesse introdurre almeno tracce di ravvedimento nel guitto programmato geneticamente per l’enfasi fantasiosa e l’improntitudine ignara di rossore, be’ deve aver abbassato la vigilanza della memoria e la conseguente capacità di giudizio. Né si può gratificargli come accenno di novità quella scimmia di autoanalisi che gli fa confessare l’errore dei toni gridati e della continua aggressività gratuita, cioè fondata sull’invenzione e la finta informazione sul passato degli avversari: vedi caso Pisapia-Moratti. I cenni di autoanalisi del Demagogo sono evanescenze presto sommerse dal fatale ritorno del suo peggio: eccolo, infatti, di nuovo in campo a sfornare iperboli dissennate: su Milano a rischio di orde comuniste, o (chissà se peggio o uguale fato) di fanatiche moschee, o ancora perfino di marea zingaresca. Anzi, le tre sciagure non si escluderebbero a vicenda!
Donne in carriera. Lei, la Moratti, almeno, riconosce esplicitamente di avere “sbagliato i toni della campagna elettorale”, e diventa guardinga in vista del ballottaggio: ha capito che l’avversario non è da prendere sottogamba, e il ravvedimento viene suggellato da una fresca stretta di mano con l’avversario calunniato. Al contrario di lei, la Santanchè non trova nulla da ridire sulla propria aggressività erga omnes, s’intende, un omnes di avversari. Intervistata, spara pari pari: “Sono una pasionaria. Non mi pento degli attacchi”. Lei una delle cause del flop elettorale Pdl (e del magico exploit di Fassino)? Chi l’accusa di questo sgorbio merita tutto il suo blaterante disprezzo. Le rivendicazioni della Daniela nazionale ignorano, ovviamente, quel limite di irrorazione corticale di cui soffre il suo vispo cervellino di pappagallina rimbalzante.
Sondaggi. Un noto tecnico di sondaggi, Renato Mannheimer, invece, trova nella sua indagine demoscopica, una risposta plausibile: “Le stime dei flussi elettorali rivelano che a decidere il voto di Milano è stato soprattutto il calo degli elettori del Pdl: circa 14 mila aventi diritto. E un altro dato rilevante riguarda gli indecisi”. Il 13% dei milanesi decise “cosa votare soltanto nell’ultima settimana”, dopo aver valutato “i diversi messaggi” elettorali. I due dati, tuttavia, convergono nel deporre contro la fiducia cieca al verbo berlusconico. Analizzando, tra le altre cose, la sconfitta Be-Bo, Eugenio Scalfari, nel suo tradizionale maxi-editoriale della domenica, ritiene di poter “decidere” per l’eclisse irreversibile del berlusconismo di massa e per l’altrettanto garantito disincanto delle legioni leghiste dal già iper-duro Bossi d’epoca, oggi piuttosto insicuro e barcollante fra spinte diverse e conseguenti sortite. Eccone un paio di capoversi. “L’invasione televisiva di Berlusconi è un fatto vergognoso che si ripresenta ad ogni campagna elettorale, alla faccia della ‘par condicio’ dietro la quale si riparano i berluschini. La novità di questa volta consiste – per quanto possiamo cogliere dalle prime reazioni del pubblico -- nell’inefficacia del messaggio berlusconiano: è passato come acqua sul vetro. Se quello è lo strumento per rimontare la sconfitta subita dal centrodestra nel primo turno elettorale, tutto porta a ritenere che il risultato dei ballottaggi confermerà che ‘il tappo è saltato’ e la fascinazione mediatica del Cavaliere di Arcore è ormai diventata una logora liturgia che non riesce più a sedurre i fedeli”. Per quanto riguarda la Lega, altrettanto colpita da questo primo turno elettorale, più di una domanda incalza l’analista: “Come si spiega questo fenomeno del tutto inatteso? Dipende da un parziale disimpegno di Bossi e dei suoi colonnelli? Da errori commessi soprattutto nella politica dell’immigrazione? Oppure anche nella Lega, come nel Pdl, da una crisi del carisma del leader? Anche per la Lega il tappo di bottiglia è saltato?” Sull’“importanza capitale per l’intera situazione politica” delle “risposte a queste domande” nessun dubbio. La Lega è, sì, soltanto un partito territoriale, “che detiene però la golden share del governo nazionale”. Bossi aveva sperato in un travaso di voti “nordisti” dal Pdl alla Lega: la frustrazione del calcolo rimette in gioco l’intera prospettiva politica Be-Bo “e dunque quella nazionale” (L’estremista Golia e il David moderato, la Repubblica, 22 Maggio).
Battute storiche. Se un articolo-sfogo deve assumere un sia pur minimo potenziale clinico-terapeutico sarà il caso di concedersi la degustazione di qualche battuta dei paladini Be-Bo destinata alla storia (della comicità involontaria). Sul binomio d’occasione Milano-Napoli come specimen dell’intero Stivale, ecco una cornata del bufalo stanco arcoriano: “Non possiamo immaginare che un Paese come l’Italia si faccia governare dai Vendola, dai Grillo, dai Di Pietro”. Che sono, giusto, le figure degne di più limpido rispetto (come de Magistris, Fassino, Pisapia, e tanti altri della cordata Pd e alleati). Il che spiega ad abundatiam il cupo vade retro del loro opposto genetico e politico, appunto il Berlù d’annata e di sempre. Il quale, pulito com’è (in tema di verità) sbrodola nelle collaudate balle per iloti: “Avevamo risolto il problema dei rifiuti in 58 giorni, ma dal Comune non è stato fatto nulla”. Quel “risolto” è un falso palmare, perché ripulire il centro e snobbare le periferie non significa risolvere. Ma, per onestà, ci duole dovere riconoscere (caso ultra-raro nelle autocelebrazioni del Cavaliere) un punto di verità in quella dichiarazione: l’accusa alla signora prima responsabile del Comune, che non è un fulgido oro nel medagliere del Pd, come non lo è quel Bassolino due volte governatore inerte della Regione, una primatista in fatto di malavita pervasiva in sostanziale libertà di nuocere e comandare. Milano, la metropoli modello, dalla generosa Moratti miliardaria al “casto Giuseppe”, Roberto Formigoni, fedeltà di ciellino divisa fra Cristo e Berlù, garante impavido (cioè, spudorato) del primato diffusivo delle scuole private cattoliche, non può e non deve diventare la “Stalingrado d’Italia”, e peggio. Testuale: “Impediremo che Milano diventi la Stalingrado che vorrebbe la sinistra estrema se diventasse sindaco Giuliano Pisapia”. La sconfitta del primo turno? Colpa dell’astensionismo, basterà convincere e portare al seggio quegli sfiduciati e il “miracolo a Milano” (ben più grande dell’omonimo film) sarà realtà. Lui ne è convinto. “Sono convinto che i milanesi che si sono astenuti dal voto al primo turno, visti i risultati, non vorranno consegnare la loro città a chi vorrebbe farla diventare, alla vigilia dell’Expo 2015, una città islamica, una zingaropoli piena di campi rom, una città che aumenta le tasse”. E via con Napoli: esposta a un rischio di barbarie non minore, la capitale del Sud rischia di cadere nelle artigliate zampe di un candidato-monstre, nientedimeno che il feroce Saladino, pardon il famigerato Luigi De Magistris, terrore degli onesti: “A Napoli, -- gorgheggia – siamo in vantaggio, e ci dobbiamo confrontare con la sinistra estrema che ha portato alla ribalta un magistrato d’assalto, uno dei tanti magistrati giustizialisti entrati in politica con la sinistra”. Finita la presentazione del mostro? Macché: il bello deve ancora venire, o piuttosto, il meglio dopo il bello. Eccolo: “Luigi De Magistris rappresenta una semplice copertura del vecchio sistema di potere, è appoggiato dagli stessi partiti che hanno malgovernato per 18 anni e che hanno creato questa situazione disastrosa”. Viceversa, se il tristo figuro del continuum verrà battuto, dal candidato giusto, Lettieri (“Carneade, chi è costui?”), Napoli, a dir poco, risorgerà: pulizia ordine epurazione della camorra e quant’altro scenderà dal cielo come una manna di benedizione. Ecco le alate parole: “si troverà una soluzione al dramma dei rifiuti e la soluzione sta nella raccolta differenziata e nella costruzione dei termovalorizzatori che a sinistra rifiutano [vero? falso?]. Noi vogliamo che Napoli torni essere una capitale europea, accogliente, vivibile, sicura e dove i giovani possano trovare lavoro”. Infine, a scanso di equivoci, rassicura che, dovessero andare male le cose, nessuna conseguenza ne verrebbe per la maggioranza e il governo (“no, assolutamente no”), che gode buona salute, è sempre coeso: “Il vero risultato politico è che non ci sono alternative alla nostra alleanza con la Lega e al nostro governo che rimane forte e con una maggioranza più coesa di prima”. E, tanto per non smentirsi nel ruolo di Babbo Natale, aggiunge: “Il governo adesso è in grado di lavorare per la riforma del fisco e della giustizia, indispensabili per ammodernare il Paese”. E via, al concludere, con le stravecchie accuse alla sinistra, un calcio a Fini, uno sberleffo all’Udc incasinato, e via strombettando.
Promesse da marinaio. Naturalmente, chi abbia seguito un po’ la politica italiana degli ultimi 17 anni, e non sia un complice illuso, un leccapiedi a stipendio, o un responsabile nuovo modello, ammetterà che la musica berlusconiana è fatta di 4 o 5 accordi che si ripetono ad infinitum con qualche dilatazione fonetica appena avvertibile. Promesse da marinaio, amplificazione delle poche cose realizzate nelle emergenze, stravolgimento dei comuni termini della convivenza sociale, acquisti di persone senza personalità, campagne giornalistiche contro avversari (veri o gonfiati dal suo umore) affidate a farabutti senza coscienza etica. E non si capisce perché un Aldo Cazzullo debba impartire lezioni bipartisan a destra e sinistra quando le magagne della destra targata Berlù non lasciano spazio di confronto ai peccati altrui: che cosa vuol dire che Pisapia “non ha dissipato i dubbi legittimamente coltivati dai moderati milanesi, i quali, come nel resto del Paese, restano la maggioranza del corpo elettorale”? Perché “Pisapia farebbe bene non solo a precisare i punti-chiave del suo programma, ma soprattutto a indicare le persone incaricate di attuarli”? (Un po’ di serietà, Corsera, 21 maggio). E’ la solita “filosofia” del moderatismo-coda di paglia, che non nomina mai i poveri e assimilati (disoccupati, giovani al vento del futuro oscuro, e via piangendo). Destino burlone per il bene sonante vocabolo serietà: gli tocca avallare quel ceto medio che si “risolve” nel più guicciardiniano cultore del proprio particulare. Che proprio in questi giorni siano stati resi pubblici i super-compensi di manager, politici e mercanti miliardari è, insieme, una derisione cinica per quelle categorie emarginate e un risveglio di memoria per chi ha il culto dello sguardo attento su ogni aspetto e magagna di questa sedicente civiltà liberal-democratica.
Addio mia bella Napoli. Naturalmente, la buona salute dei partiti che i rispettivi leader del Pdl e della Lega sventolano coram populo è soltanto un auspicio e un mezzo ricordo: stridori e malumori sono all’ordine del giorno in entrambe le formazioni, e non sembra ci siano facili balzi alla cancellazione del primo turno elettorale, così poco saporito al palato ingordo, ma non sempre avveduto, di lor signori. Né sembrano di facile aggancio le pretese di Bossi sui due o più ministeri da dislocare a Milano (e qualcosina anche a Napoli, no? Ma sì, perché no?): anzi, hanno mandato in bestia il suo ricattabile alleato e una buona fetta del Pdl. Ma in segreto: in pubblico, se il Corsera non deraglia di grosso, si scrive: “I ministeri? L’albero della cuccagna doveva finire. E’finita Roma ladrona”: questo distillato di ottimismo clamante viene da quel fanciullone di Roberto Calderoli. Il quale “si dice sicuro del via libera da parte di Silvio Berlusconi”. Né gli manca la conferma del suo gran capo, che sentenzia: “Parola data non torna indietro, sulla questione dei ministeri Berlusconi è d’accordo. E i ministeri verranno”. Ipse dixit. Ma Bossi non è il venerando Pitagora, e difficile impresa sarà insistere su questa baggianata: che osteggiano alcuni nomi forti del Pdl, per esempio, Gasparri, Cicchitto, Alemanno, Polverini, Formigoni,e altri non pochi. Eppure il Senatur insiste, in quell’intervista, anzi alza la posta: “Non è mica detto che siano solo i ministeri mio e di Calderoli, anzi arriverà a Milano un ministero enorme, dove si fa l’economia”. E se Formigoni oppone altre priorità, il celoduro d’antan sbotta a zittirlo, rinfacciando: “E’ presidente della Lombardia per i voti della Lega, almeno stia zitto”. E gli gracchia una faticosa (ahimè, dove sono i bei tempi!?) pernacchia. Con questi chiari di luna, ha un bel rimediare il Ghe pensi mi incavolato nero “sostituendo” dipartimenti a ministeri: la fibrillazione sale di temperatura e lo spettro del maxi-crollo induce a moderare toni e tonificanti. Formigoni dichiara di aver ricevuto dal senatur una pernacchia, alla quale aveva risposto risentito, ma poi frena e dice che, no, non gliela restituirà. Un mini-evento simbolo: di un soprassalto di coscienza lucida sul possibile crollo catastrofico indotto da litigiosità interna: meglio lenire, sedare, smorzare. La resa dei conti verrà, casomai, dopo il ballottaggio. Che aspettiamo tutti, ma alcuni senza illusioni di cambiamenti epocali.
Pasquale Licciardello

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