La morale è dogmatica, assertiva, sicura, ineludibile. La morale è di una religione o di una setta, di un gruppo comunque, di pochi o molti, ma non di tutti, anche se quei pochi o molti che siano tendono sempre a universalizzarla. La morale è un dettato, un obbligo che, quasi sempre, deve riguardare gli altri. La morale è benevola verso noi stessi (o il nostro gruppo/setta) ma categorica verso gli altri.
L'etica è dubbiosa. L'etica non ha prospettive eterne ma si accontenta di vivere il quotidiano. L'etica è laica, è del cittadino e non del suddito. L'etica s'impone prima a se stessi. L'etica è democratica, partecipata, discussa, argomentata.
Lo stato italiano non è etico ma morale. La chiesa per sua stessa natura adotta la morale e non l'etica. E fin qua pazienza! Il guaio è che la chiesa e lo stato italiano si rifanno ad una doppia morale, come se le tavole di Mosè contenessero in calce un'appendice "Sono solo per il popolo e non per chi lo governa". Così diventano peccati veniali quelli dei governanti e mortali quelli dei sudditi che sono costretti a non divorziare, a non morire, a non fare l'amore. La contropartita? Otto per mille, esenzione dell'iva, insegnanti di religione pagati dallo stato, finanziamenti alle scuole private, etc, etc. Totus tuus è il motto scelto da Benedetto XVI, modestamente vorremmo suggerire in cambio "pecunia non olet".
lunedì 28 febbraio 2011
Pietro Calamandrei. Per una scuola pubblica
Ci siano pure scuole di partito o scuole di chiesa. Ma lo Stato le deve sorvegliare, le deve regolare; le deve tenere nei loro limiti e deve riuscire a far meglio di loro. La scuola di Stato, insomma, deve essere una garanzia, perché non si scivoli in quello che sarebbe la fine della scuola e forse la fine della democrazia e della libertà, cioè nella scuola di partito.
Come si fa a istituire in un paese la scuola di partito? Si può fare in due modi. Uno è quello del totalitarismo aperto, confessato. Lo abbiamo esperimentato, ahimè. Credo che tutti qui ve ne ricordiate, quantunque molta gente non se ne ricordi più. Lo abbiamo sperimentato sotto il fascismo. Tutte le scuole diventano scuole di Stato: la scuola privata non è più permessa, ma lo Stato diventa un partito e quindi tutte le scuole sono scuole di Stato, ma per questo sono anche scuole di partito. Ma c'è un'altra forma per arrivare a trasformare la scuola di Stato in scuola di partito o di setta. Il totalitarismo subdolo, indiretto, torpido, come certe polmoniti torpide che vengono senza febbre, ma che sono pericolosissime... Facciamo l'ipotesi, così astrattamente, che ci sia un partito al potere, un partito dominante, il quale però formalmente vuole rispettare la Costituzione, non la vuole violare in sostanza. Non vuol fare la marcia su Roma e trasformare l'aula in alloggiamento per i manipoli; ma vuol istituire, senza parere, una larvata dittatura. Allora, che cosa fare per impadronirsi delle scuole e per trasformare le scuole di Stato in scuole di partito? Si accorge che le scuole di Stato hanno il difetto di essere imparziali. C'è una certa resistenza; in quelle scuole c'è sempre, perfino sotto il fascismo c'è stata. Allora, il partito dominante segue un'altra strada (è tutta un'ipotesi teorica, intendiamoci). Comincia a trascurare le scuole pubbliche, a screditarle, ad impoverirle. Lascia che si anemizzino e comincia a favorire le scuole private. Non tutte le scuole private. Le scuole del suo partito, di quel partito. Ed allora tutte le cure cominciano ad andare a queste scuole private. Cure di denaro e di privilegi. Si comincia persino a consigliare i ragazzi ad andare a queste scuole, perché in fondo sono migliori si dice di quelle di Stato. E magari si danno dei premi, come ora vi dirò, o si propone di dare dei premi a quei cittadini che saranno disposti a mandare i loro figlioli invece che alle scuole pubbliche alle scuole private. A "quelle" scuole private. Gli esami sono più facili, si studia meno e si riesce meglio. Così la scuola privata diventa una scuola privilegiata. Il partito dominante, non potendo trasformare apertamente le scuole di Stato in scuole di partito, manda in malora le scuole di Stato per dare la prevalenza alle sue scuole private. Attenzione, amici, in questo convegno questo è il punto che bisogna discutere. Attenzione, questa è la ricetta. Bisogna tener d'occhio i cuochi di questa bassa cucina. L'operazione si fa in tre modi: ve l'ho già detto: rovinare le scuole di Stato. Lasciare che vadano in malora. Impoverire i loro bilanci. Ignorare i loro bisogni. Attenuare la sorveglianza e il controllo sulle scuole private. Non controllarne la serietà. Lasciare che vi insegnino insegnanti che non hanno i titoli minimi per insegnare. Lasciare che gli esami siano burlette. Dare alle scuole private denaro pubblico. Questo è il punto. Dare alle scuole private denaro pubblico"
Discorso pronunciato al III Congresso in difesa della Scuola nazionale a Roma l'11 febbraio 1950
Come si fa a istituire in un paese la scuola di partito? Si può fare in due modi. Uno è quello del totalitarismo aperto, confessato. Lo abbiamo esperimentato, ahimè. Credo che tutti qui ve ne ricordiate, quantunque molta gente non se ne ricordi più. Lo abbiamo sperimentato sotto il fascismo. Tutte le scuole diventano scuole di Stato: la scuola privata non è più permessa, ma lo Stato diventa un partito e quindi tutte le scuole sono scuole di Stato, ma per questo sono anche scuole di partito. Ma c'è un'altra forma per arrivare a trasformare la scuola di Stato in scuola di partito o di setta. Il totalitarismo subdolo, indiretto, torpido, come certe polmoniti torpide che vengono senza febbre, ma che sono pericolosissime... Facciamo l'ipotesi, così astrattamente, che ci sia un partito al potere, un partito dominante, il quale però formalmente vuole rispettare la Costituzione, non la vuole violare in sostanza. Non vuol fare la marcia su Roma e trasformare l'aula in alloggiamento per i manipoli; ma vuol istituire, senza parere, una larvata dittatura. Allora, che cosa fare per impadronirsi delle scuole e per trasformare le scuole di Stato in scuole di partito? Si accorge che le scuole di Stato hanno il difetto di essere imparziali. C'è una certa resistenza; in quelle scuole c'è sempre, perfino sotto il fascismo c'è stata. Allora, il partito dominante segue un'altra strada (è tutta un'ipotesi teorica, intendiamoci). Comincia a trascurare le scuole pubbliche, a screditarle, ad impoverirle. Lascia che si anemizzino e comincia a favorire le scuole private. Non tutte le scuole private. Le scuole del suo partito, di quel partito. Ed allora tutte le cure cominciano ad andare a queste scuole private. Cure di denaro e di privilegi. Si comincia persino a consigliare i ragazzi ad andare a queste scuole, perché in fondo sono migliori si dice di quelle di Stato. E magari si danno dei premi, come ora vi dirò, o si propone di dare dei premi a quei cittadini che saranno disposti a mandare i loro figlioli invece che alle scuole pubbliche alle scuole private. A "quelle" scuole private. Gli esami sono più facili, si studia meno e si riesce meglio. Così la scuola privata diventa una scuola privilegiata. Il partito dominante, non potendo trasformare apertamente le scuole di Stato in scuole di partito, manda in malora le scuole di Stato per dare la prevalenza alle sue scuole private. Attenzione, amici, in questo convegno questo è il punto che bisogna discutere. Attenzione, questa è la ricetta. Bisogna tener d'occhio i cuochi di questa bassa cucina. L'operazione si fa in tre modi: ve l'ho già detto: rovinare le scuole di Stato. Lasciare che vadano in malora. Impoverire i loro bilanci. Ignorare i loro bisogni. Attenuare la sorveglianza e il controllo sulle scuole private. Non controllarne la serietà. Lasciare che vi insegnino insegnanti che non hanno i titoli minimi per insegnare. Lasciare che gli esami siano burlette. Dare alle scuole private denaro pubblico. Questo è il punto. Dare alle scuole private denaro pubblico"
Discorso pronunciato al III Congresso in difesa della Scuola nazionale a Roma l'11 febbraio 1950
Diario di uno sciame polisismico
Il titolo fa un piccolo abuso: quel poli non indica un plurale (già insito in “sciame”) ma allude alla natura politica del sisma in corso. Insomma, si tratta di un a metafora. La scelta del diario insegue gli eventi in progress del dramma libico.
Martedì, 22 febbraio. I quotidiani rilanciano le notizie dei tg con titoloni di circostanza: Il Corriere della sera ne sventola uno lungo quanto la larghezza della (prima) pagina: Libia nel caos, bombe sulla folla (titolo) Elicotteri e aerei contro i manifestanti. I diplomatici di Tripoli: un genocidio. Berlusconi: violenza inaccettabile. Il petrolio vola, giù le borse (occhiello). Gheddafi all’ultima battaglia, centinaia di morti nelle piazze. I palazzi del regime bruciano (catenaccio). I servizi si stendono tra le pagine 2 e 13, e impegnano un drappello di ben undici autori, più un nome fittizio dietro il quale una giornalista libica trasmette un suo mini-diario degli eventi. Commento plurale. Un tragedia non si può accantonarla per darsi alla critica: neanche per un momento. Però, quel tanto di empatia che ci è consentito per deplorare le stragi, non può bloccare la risposta (culturale e caratteriale) che ci viene sollecitata dal contesto. Il “via!” alle note fa capolino già dall’abbondanza della “copertura” giornalistica di un dramma al sangue. Questa abbondanza dice che il sangue le morti le ferite eccetera, sono già metabolizzate in notizia. E l’ovvia trasposizione significa: distanza emozionale dalla carne che soffre; corsa e rincorsa perché il “nostro servizio” superi gli altri della concorrenza (o, almeno, non se ne lasci superare). L’emozione resta, ma cambia volto (e pancia). Seconda noterella (non “dei Mille”, ma dei pochi). La gara con la concorrenza spara sostantivi e aggettivi sovraccarichi di tensione: bisogna colpire il lettore, catturarlo alla trappola emotiva. In fattispecie, il sostantivo che copre tutti gli altri, infischiandosene del ridicolo, è genocidio. Si punta, è chiaro, al sistema limbico (ippocampo, amidgala, ecc.) del lettore, cioè alla sua (nostra) eredità “giurassica”. Una zona cerebrale che produce emozioni sadiche non meno che slanci trofici trasponibili in cibi meno immediati. Ci scusiamo per questo raptus di biologia culturale, e proseguiamo.
Nella foia del successo competitivo si azzardano analisi premature e giudizi orecchiabili ma incauti. Uno in primis: il popolo insorge in nome della libertà. E via alla danza sui diritti umani, i valori, la democrazia e altro bene. Una batteria di maiuscole (concetti metafisici o in bilico tra “fisica” e metafisica). Quando le rivolte della Tunisia, dell’Algeria, dello stesso Egitto sono state insignite del primo motore delle umane azioni e commozioni, la fame basale, quella del cibo fisico (sine qua non di ogni impresa, ma soprattutto della più semplice e immediata: vivere), la spiegazione appariva sobria e veritiera. Che poi si aggiungesse il risentimento verso i soliti noti della politica universale, cioè i corrotti e profittatori delle posizioni di controllo del denaro in movimento e delle sue dirette e indirette dipendenze, questa componente tanto odiosa quanto naturale, arricchirebbe la visione degli eventi di un altro tributo a madonna verità. Se quel soliti può sembrare infetto di pregiudizio, non costa molto concedere ai sospettosi cauti distinguo: purché si sappia che i distinguo sono leciti fin dove si stende la constatazione empirica, l’avallo dell’eventuale, paziente ricerca fattuale, la correlata memoria selettiva, guardinga contro ogni generalizzazione sommaria. Chi (per fare un esempio) oserebbe accusare un Prodi di corruzione mammonica? Mentre nei governi successivi e qualcuno (anzi molti) dei precedenti (della c.d. prima Repubblica), si poteva, e si può “osare”. Quanto al condizionale del verbo osare, be’, a parte il caso citato, c’è gente che osa di tutto: dalle parti di Arcore e zone associate. Come cantano notizie emergenti dai fatti e da iniziative giudiziarie in corso (o archiviate con prescrizioni propiziate da cavilli, “legittimi impedimenti” e altra zavorra puntata sui tempi lunghi della nostra malconcia Giustizia).
Entrando nel merito “stretto” del tema, un particolare emergente da uno di questi servizi giornalistici rende difficile convalidare certe genericità “valoriali” (che brutta parola!). Si legge nella corrispondenza di Sarcina (Al confine tunisino viveri e migranti bloccati dalla polizia) che l’importazione libica di cibo, (ogni sorta di generi alimentari) dalla Tunisia è stata imponente durante il “regno” del dittatore, con l’ovvio fine di garantirsi la fedeltà dei “fratelli” da Libro verde non facendogli mancare gli alimenti. Ossia, il collante primario di ogni fedeltà politica. Allora, perché la rivolta? Ecco il solito frescone “valoriale” lampeggiare dallo sguardo acceso la risposta: ma, è ovvio, per la libertà, i diritti negati, e via volando (verso l’empireo). Se agisce un movente come la rivendicazione di una più chiara democrazia nel Paese, il Popolo non c’entra. Il movimento deve avere altre radici. E magari qualche zampina esterna. Gli intellettuali, le persone istruite (per dirla in basso eloquio), i giovani politicamente reattivi sono sempre minoranze, dappertutto. Anche se cospicue e in occasionale evoluzione quantitativa. Non tutti sono disposti a perdere vantaggi materiali sperimentati per le incognite seducenti di madonna Libertà impennacchiata di maiuscola. Insomma, è presto per costruire un giudizio equo su questa tragedia. Che sembra destinata a crescere.
La quale suggerisce ipotesi divergenti dalle valutazioni correnti, taroccate, in buona parte, da pregiudizi ideologici (o altrimenti interessati). E penso al Colonnello par excellence, a quanto deve sentirsi tradito dal suo “popolo”, come deve accusare di ingratitudine i promotori interni della rivolta. Giudicando gli eventuali partecipanti popolari come dei sedotti e traditi dai cattivi maestri valoriali. Il fatto che si spari sui dimostranti significa che il popolo, come totalità coesa, non c’è in questa impresa. Che a muovere le cose siano altre figure con più complessi moventi. Che poi questi agitatori riescano a convincere anche dei popolani, è possibile. Ci sono tanti modi e variabili mezzi per subornare gli sprovveduti. E la menzogna, nello sporco giochetto, fa da primadonna: niente di più facile che subornare gente di cervello semplice, e giovani ribollenti di energie in ozio o impegnate in “imprese” non abbastanza appaganti. D’altra parte, che ne vogliamo fare dei tristi esecutori dei micidiali ordini dell’irato (e sbalordito) raìs? Sono, o no, fedeli e devoti al leader carismatico in ritirata coatta, ma avvertita come temporanea e “guaribile”? Se c’entra, nel guazzabuglio tragico, l’effetto contagio? C’entra, altro che! Macchine siamo (anche se di delicate strutture biochimiche), e come un magnete può caricare un oggetto di ferro che si trovi nel suo campo, così fra i “bipedi pensanti” tanti o pochi vengono “caricati” dalla tensione neuronale degli agitatori-agitati. E si convincono a seguirli, sognando vantaggi per lo più immaginari. Abbiano ricordato i giovani ritenuti componente più o meno decisiva della rivolta nord-africana: giusta inclusione. Perfino nell’attribuire loro un ruolo eminente. A parte l’uso dell’articolo determinativo che, se preso alla lettera, porta a inevitabili errori di valutazione. E anche internet, con i suoi siti e blog, lo scambio facile di informazioni “in tempo reale”, e imput vari, ha giocato senz’altro un suo ruolo forte. Del resto, giovani e rete sono il proverbiale binomio del secchio e la corda. Quale sia il peso distributivo di questa pluralità di componenti è presto (ripetiamo) per tentare di capirlo al meglio.
Mercoledì, 23 febbraio. Durante il giorno le notizie elettroniche si susseguono incalzanti da televisioni e internet, a conferma della gravità della situazione. Il discorso di Gheddafi ripete lo schema di questa sorta d’interventi: sono agenti stranieri ad avere acceso e ad alimentare l’incendio, sono spregevoli ratti o ingrati illusi a seguirli, insomma, è tutta robaccia da eliminare. Senza se e senza ma (come si usa dire in certi linguaggi spicci, ormai inerziali). Donde, la reazione micidialmente drastica del grande Capo e del suo inner cercle: con un esito tragico in evoluzione esponenziale. Sarà (e lo si spera) ancora esagerata la cifra di diecimila morti e centinaia di migliaia di feriti più o meno gravi (chi li ha contati? Come sarebbe possibile un controllo numerico e “ponderale” in queste condizioni di scontri e “macellazione” in corso?). Ma certo l’incremento tragico è innegabile.
Quanto alle insinuazioni di Gheddafi, onestà vuole che non si escluda del tutto un possibile gioco sporco di potenze straniere (magari non troppo lontane) che mobilitino agenti provocatori bene occultati tra il “popolo”; anzi fra la parte più reattiva del popolo, per diffondere notizie vere mescolate a montature fantasiose, ma buone ad eccitare gli animi. E non è a dire che manchino, nel corredo ideo-pratico del rais elementi disponibili a un uso esterno ostile all’assetto politico libico dell’era gheddafiana, la cosiddetta Jamahiriya. Un passaparola insistito, gonfio di dati reali (censura sull’informazione e divieto operativo di critica al regime, per esempio) e montature ideologiche è sempre un efficace strumento di agitazione a regime di feed back positivo (cioè del tipo valanga o incendio, dove l’effetto che retro-agisce sulla causa, anziché toglierle forza, gliela accresce).
Detto questo, precisiamo che nessuna simpatia ci ispira il Colonnello libico, anche se, anni fa, abbiamo reagito positivamente alla lettura del suo Libro verde, che lasciava trasparire una sorta di terza via araba al socialismo. Da quel tempo, non più vicino (quando il raìs tentava di sedurre i siciliani distribuendo il Libro verde e altro materiale tramite agenti locali ben remunerati, e magari convinti) , l’abbiamo criticato sempre per una quantità di tratti caratteriali: l’istrionismo, l’ostentazione di una diversità monumentale, l’atteggiamento profetico, l’enfasi beduinica della Tenda, la dismisura nelle pretese di risarcimento per eventi lontani dei quali è paradossale “incolpare” (de facto) le nuove generazioni, i successivi governi e le istituzioni democratiche: il colonialismo barbaro (ma chi ne conosce uno samaritano?) fu opera dell’“Italietta” giolittiana (malata delle fantasie eroico-imperialiste delle destre europee e, di riflesso, italiane) che conquistò la Libia, e del rumoroso fascismo imperiale, torturatore e stragista (anche in Etiopia), che la ereditò e ne contenne con metodi “spicci” la mai del tutto spenta Resistenza. Quando il nostro folkloristico premier montò quel monumento storico al cattivo gusto del congeniale Ospite (le parate e le sfilate-carosello dei cavalli, il goffo baciamano, la sfilata (e altre imprese più saporite e meno esposte) delle 200 selezionatissime giovani donne in pittoreschi costumi, la tenda beduina arricchita di moduli e ninnoli personali, e così via (nel chiassoso cromatismo esibizionistico) non abbiamo certo applaudito. Tanto meno agli smidollati abbracci e gesti vari di affettuosità poco “istituzionale”, alle frequenti visite reciproche, e in particolare allo zelo di patron Silvio, che va in Libia a festeggiare i 40 anni della “grande rivoluzione” che consegnò alla storia l’amico. Cioè, osserva Gian Antonio Stella, “quel golpe militare che dalla sera alla mattina buttò fuori dalla Libia, impossessandosi di tutti i loro beni per circa 3 miliardi di euro attuali, ventimila italiani […] nella stragrande maggioranza del tutto estranei ai crimini fascisti”. E che, per colmo, aggiunge Stella, “da allora, ignorati se non guardati con fastidio dagli insofferenti teorici della realpolitik, invocano [invano] che venga riconosciuta dignità al loro dramma” (Corriere, Hostess, regali e baci: l’Italia del Muammar show. Gli undici incontri di Berlusconi con Gheddafi tra il 2008 e il 2010: cammelli in dono e caroselli di cavalli berberi.
Siamo, dunque, al 23 febbraio. Il Ballarò di ieri sera ha mostrato la qualità della democrazia secondo la prassi di certi ministri del nostro governo: non abbiamo visto un solo intervento di Franceschini che non sia stato disturbato ripetutamente e pesantemente da questi campioni del sabotaggio sistematico, con l’inarrivabile Gasparri a fare (non insolitamente) da leader delle aggressioni becere.
Ma veniamo alle notizie dal fronte: sembrano più o meno tutte orientate a prevedere un immancabile successo finale della rivolta-rivoluzione. L’obiettivo fotografa in primo piano il tragico prezzo di sangue che l’inviperito rais sta facendo pagare ai ribelli. Naturalmente, ancora con scommesse d’azzardo sull’incontrollabile realtà in movimento. A questo punto, anche il nostro “pensiero” volge all’augurio del successo. E della brevità dello scontro. Ma un augurio non morde sulla realtà. E a leggere i giornali o ascoltare i servizi televisivi e di internet si è indotti a credere che tanta gente scambia il desiderio per realtà. Gheddafi si sta mostrando un osso duro e non sarà né facile né di poca spesa rimuoverlo.
Pasquale Licciardello
lunedì 21 febbraio 2011
Fratello gheddafi
Libia: Febbraio 2011.Tripoli raid aereo dell'aviazione di gheddafi, bombardati i manifestanti: più di 250 morti. Mercenari pagati da gheddafi assediano Tripoli. Tripoli, la polizia spara sui manifestanti. Mercenari sparano sui partecipanti ad un corteo funebre: decine di morti. A Bengasi, epicentro dei disordini, i morti di ieri sono stati almeno sessanta....
L'amico berlusconi tace!!!
L'amico berlusconi tace!!!
Chi l'ha dura la vince
Cominciamo questo resoconto minimale degli eventi in corso come un diario spurio seguendo lo scorrere dei giorni con note d’occasione. Supporto preferito per questa escursione sarà la stampa, e un giornale in primis, il Corriere della sera: per la correttezza dell’informazione, il valore di certe sue firme, l’occasione, che vi cogliamo, di contrastare l’ispirazione genericamente moderata e, peggio, il liberismo scolastico di certi suoi campioni refrattari alla lezione dei fatti.
Il Corsera di oggi, 8 febbraio, dedica l’intera pagina 5 alle intercettazioni che rivelano la dolce vita del premier in un intreccio di nomi di matura notorietà o di fresca esposizione mediatica. Il titolone (con i suoi satelliti: occhiello, catenaccio) è già un résumé eloquente: Le telefonate. Feste con le ragazze, il caso Tommasi Vertice tra i pm di Napoli e Milano. I contatti con Paolo Berlusconi e La Russa. Il ruolo della Ronzulli. Il primo capoverso spara come una mitraglia con proiettili-nomi di tutto rispetto: “Napoli. C’è una girandola di contatti e appuntamenti nelle intercettazioni disposte dalla Procura di Napoli sul giro di prostituzione che incrocia quello delle feste del presidente del Consiglio. Perché coinvolge il mondo che ruota attorno a Sara Tommasi, la starlette che partecipava alle serate organizzate nelle residenze di Silvio Berlusconi, ma anche ad incontri a pagamento in alcuni alberghi del capoluogo partenopeo.” Emergono dalle telefonate le frequentazioni di questa nubile allegra “con politici, dirigenti della televisione, manager, in una ricerca continua di soldi e successo”, nonché “il filo che porta fino alla scuderia di Lele Mora, della quale la happy girl “fa parte da anni, e a Fabrizio Corona”, il non meno happy e spregiudicato boy della famosa Belèn Rodriguez. Alla quale (sia detto en passant) le strepitose notizie non sembra abbiano aduggiato la gioiosa preparazione all’imminente sfolgorio sanremese). Altre figure si affacciano da quelle spie elettroniche, tra le quali una di gran peso nascosta sotto il finto battesimo di ‘Bartolo’. Il quale, tanto per arricchire il quadro, è già da tempo “indagato per un traffico di euro falsi oltre che per induzione alla prostituzione”. Uomo di larga fantasia, il Bartolo gestisce in città il movimento delle fanciulle disponibili “in cambio di una mediazione di mille euro a volta”. Né basta: il versatile giovanotto lavora anche “nel settore della pubblicità, ha contatti frequenti con Corona e con lui parla dello smercio di banconote fasulle”. Per non essere da meno, Sara “nelle telefonate con lo stesso Bartolo e con altri amici racconta invece che cosa avviene ad Arcore, parla di Lele, svela che lui le stordisce” mettendo “delle cose nei bicchieri”. Ottima collaborazione involontaria, queste confidenze, per gli indagatori perché forniscono un chiaro riscontro “a quanto è già contenuto nel fascicolo avviato dai magistrati di Milano”. La Tommasi dice di essere “stata ad Arcore pure insieme a Ruby in occasione della visita di Vladimir Putin il 25 aprile scorso”, e che “usava inviare sms a Berlusconi, al ministro Ignazio La Russa (col quale era ‘più pressante’) e perfino al fratello di don Silvio, Paolo. Contatti reiterati emergono anche “con l’europarlamentare del Pdl Licia Ronzulli, che alle feste di Arcore era un’habitué tanto da essere stata indicata come una delle organizzatrici, anche perché legata alla consigliera regionale della Lombardia Nicole Minetti.” Un tipino alquanto indaffarato la Tommasi, che oltre agli spassi ben retribuiti delle parti basse curava anche quelli “alti” della vanità televisiva chiedendo particine in Tv a destra e a manca, da Fabrizio del Noce (che sembra godere di una fama da buongustaio) a Massimo Giletti. Il tutto, s’intende, senza rinunce costose, se risulta che non rallenta la sua seriale richiesta di appuntamenti a Bartolo o a Lele. E ad altri amici: in una di queste telefonate la si sente dire: ‘Io non voglio più essere nel giro del presidente [quale dei tanti?], voglio muovermi autonomamente”. In altre telefoniche confidenze la starlet torna a parlare delle sostanze che Lele mette nelle bevande. Come era abitudine anche di quel Giampaolo Tarantini imprenditore, che reclutava ragazze per propiziare lucrose commesse alle sue merci (apparecchi clinici) presso un fantasioso bouquet di personaggi pubblici. Una ridda di nomi più o meno noti e importanti nella vita pubblica o in quella privata e depravata svolazza in questo piccolo mondo moderno (così poco fogazzariano!): Corona e Mora non sono che due dei tanti. Emilio Fede, che è accusato degli stessi reati, è soltanto il nome più esposto e di più lungo corso nella notorietà televisiva. Si parla anche di foto del premier nudo che sarebbero in circolazione in un’asta segreta, ma sembra si tratti di una millanteria. Non è di sostanza così vile invece la notizia di foto con soggetto plurale: il premier con l’ormai famosa Naomi e la sua amica Roberta, allora diciassettenni, ospiti di Villa Certosa per dieci giorni, intorno al Capodanno 2008.“Nulla di sconveniente”, assicura il Corriere, aggiungendo, però, che il fratello di Roberta ha messo all’asta le foto millantando disponibili ghiottonerie che ne “avrebbero comunque fatto salire le quotazioni”. Non senza concludere con queste ammissioni: “E in ogni caso nessuno può escludere che altre istantanee siano in giro, custodite dalle stesse ragazze napoletane o dalle aspiranti starlette che erano assidue frequentatrici delle feste del presidente del Consiglio”.
Loquace, la Tommasi parla a ruota libera quando le capita l’occasione, e si smentisce quando avverte rombi di tuono: “In collegamento con Un giorno da pecora, trasmissione di Radio 2” pretende che lei ad Arcore sia stata solo “in occasioni ufficiali, dopo incontri o convention del Pdl, con politici e ministri”. Nega, insomma, che sia stata alle feste, e che abbia “conosciuto Putin” (anche se, confessa, le “piacerebbe incontrarlo”. Conosce bene, ad ogni modo, il mondo che frequenta: “In questo mondo, in politica o nello spettacolo, ci sono sempre dei giri loschi: in Italia è così. Lo sappiano tutti che Lele Mora portava le ragazze a Berlusconi, come si sa che si ricorre alla prostituzione, questo lavoro è fatto così”. E ha i suoi rischi, se la signorina Grandi firme, laurea alla Bocconi ed ex naufraga dell’Isola dei famosi, da qualche tempo ha “l’impressione di essere sempre oggetto di ricatto”, e si sente “sotto persecuzione”: “uqqq
Quando esco di casa ho paura di bere in qualsiasi bicchiere”: teme che vi sia “dentro qualcosa che ti fa perdere la testa per farti fare delle pazzie sessuali.” Alla domanda se le fosse mai accaduto, risponde, lesta: “in continuazione”. Più tardi, “al telefono col Corriere, racconta di essere ‘delusa e di non credere più a niente’”. Dice secca: “Io ormai mi sono arresa”, e “descrive lo star System che le ha dato la celebrità: ‘Il modello è quello del faraone con la sua corte. Purtroppo, in questo mondo, ormai si consuma soltanto una piccola, continua guerra di potere: le foto servono a punire o a premiare certe ragazze rispetto ad altre, a ricattare quel politico oggi e quell’altro domani. Le donne dello spettacolo vengono costruite e usate, ma si vede che va bene così a tutti”.
Come reagisce, il premier, a queste rivelazioni? Con quella prevedibile faccia tosta alla quale ci ha abituato: negando ogni addebito, rovesciando il tavolo in faccia alle sue vittime-complici, accusandole di avere millantato tutto e di più. E cioè, ripetendo le stesse frasi e le medesime parole, sempre pronte all’uso, che da tre lustri recita ad ogni rivelazione dei suoi vizietti perversi. Ammette soltanto le feste, ma depurandole di ogni malizia e furbizia, alla faccia delle registrazioni (che si appresta a bloccare con l’ennesima legge ad personam) e delle altre evidenze sparse sul suo cammino non proprio da missionario francescano.
Il Corriere dell’indomani, 9 febbraio, dedica la pagina 6 allo stesso contesto: Da belle foto a colori sorridono i personaggi del grande (o turpe) giro: nella più grande, la Tommasi e Lele Mora, in una delle piccole Fabrizio Corona, nell’altra piccola la sorella della troppo gettonata Belèn Rodriguez, sua sorella Cecilia, insieme al fondatore di “Guru”, Matteo Cambi. Il titolone scampana così: Feste, incontri e sms Il ruolo della Tommasi. L’attrice avrebbe inviato messaggi minacciosi al Cavaliere. Impinguano la pagina, due solenni smentite: una di Palazzo Chigi (“La showgirl mai salita su un’auto di Berlusconi”, un’altra di La Russa, che ha inviato una lettera: “Tra me e la signora mai nessuna telefonata”. Da Napoli, l’inviato del Corriere fa sapere un mucchio di cose palpitanti di godurie sessuali. “Incontri a pagamento organizzati a Napoli, ma anche a Roma e a Milano. Si muovono all’ombra del clan camorrista dei Mallardo i ‘gestori’ del giro di prostituzione che incrocia le feste del presidente del Consiglio. Fissano gli appuntamenti con facoltosi clienti per Sara Tommasi, ospite assidua di Silvio Berlusconi. E proprio intercettando le loro conversazioni si scopre che almeno in un’occasione la starlette sarebbe stata prelevata sotto la sua casa nella capitale dalla scorta del capo del governo, anche se Palazzo Chigi ha nettamente smentito la circostanza”.
Pausa: sembra di assistere a un film di Tinto Brass dopato di malavita. Ma continuiamo. “Lei con Berlusconi mostra di avere familiarità, gli manda quindici sms sul suo telefonino personale. Ma il 15 gennaio, quando diventa pubblica la notizia dell’avviso a comparire spedito dai magistrati milanesi, in cinque ore gli manda nove messaggi di insulti e minacce”. Il resoconto giornalistico si fa, di capoverso in capoverso, più ghiotto (o più disgustoso, a seconda delle sensibilità che lo accostano). Seguitiamo. “L’informativa consegnata dalla squadra mobile ai magistrati partenopei, che indagando su un traffico di euro falsi sono arrivati alle feste, mostra come la ragazza rappresenti ormai l’anello di congiunzione tra la scuderia di Lele Mora e la criminalità organizzata. Un legame alimentato da Fabrizio Corona che ai ‘reclutatori’ propone anche di mandare da un nuovo cliente Cecilia Rodriguez, la sorella della sua fidanzata Belèn, soubrette diventata ormai famosa tanto da essere stata chiamata a presentare il Festival di Sanremo. Personaggio chiave dell’inchiesta si conferma Vincenzo Seiello, conosciuto come ‘Bartolo’, che si muove con disinvoltura nel mondo dello spettacolo e fissa incontri a pagamento per le ragazze anche mentre si trova a Roma nella villa dell’Olgiata del cantante Gigi D’Alessio” Anche il povero Gigi hanno coinvolto in questa turpe monnezza: è da supporre, cogliendone la buona fede, lontana dal sospettare simili acquitrini.
11 febbraio. L’offensiva del Cavaliere dai troppi cavalli, mentre scriviamo, si sta svolgendo alla grande (per usare una formula scempia di largo consumo): proposta di sit in davanti al tempio della Giustizia, dichiarazioni di fuoco sparse ai quattro venti, sollecitazioni a grappolo di personalità di varia autorevolezza, fino al sommo Colle (che risponde picche, naturalmente), movimentazione un po’ più travagliata di Santa Romana Ecclesia (in difficoltà crescenti con il Recidivo irrecuperabile, anche se prezioso di buone azioni da portafoglio), ansia di spose importanti (Clio, moglie del Presidente Napolitano: “vivo questo momento storico con turbamento”, e per non lasciare l’amaro in bocca a chi l’ascolta, aggiunge: “ma anche con speranza”: noblesse oblige), sdegno e rabbia di avversari incollati al rispetto delle istituzioni (i poveri di spirito!); e via sfangando. E urlando. Che è quanto continua a fare, con spudorata testardaggine, questo piccolo tsunami in sembianze umane regalatoci dalle oscure forze del Grande Imbroglio detto Mondo, in combutta tra loro a mimare punizioni infernali riempiendolo di miliardi e occhiuta assistenza mascherata. Continua, non solo, ma, va aggiunto, con accresciuta aggressività e ampiezza di scontri. L’aggressività, finora soltanto verbale (ma non dimentichiamo le campagne diffamatorie dei suoi fogliacci ai danni degli avversari vecchi e nuovi (Fini, la Boccassini, la Marcegaglia e qualche altro bersaglio di meno esposta rilevanza) allarga il fronte di giorno in giorno.
Il Corriere di oggi reca titoli coerenti con l’ampliarsi dello scontro: Berlusconi accusa i ‘puritani’:“Inchieste da Paesi comunisti”golpe morale, io spiato come nella Ddr”. I sommari della prima pagina annunciano: “Berlusconi attacca nuovamente i magistrati’ rompe definitivamente con l’Udc e rilancia sull’immunità parlamentare”. Per i magistrati, questi pensierini stucchevolmente ripetitivi: “Il Cavaliere denuncia la ‘lobby antiberlusconiana’(procure, giornali e alcuni talk show) che si muove ‘di concerto’ per eliminarlo con inchieste ‘farsesche, inaccettabili e degne della Germania comunista’” del (non?) buon tempo antico. E giacché è in corsa, aggiunge il “golpe morale” dai “toni puritani” montato contro un “presidente galantuomo”. Fa pure qualche concessione, ma per minimizzare e scantonare: “Qualche volta sono anche un peccatore”. Qualche volta! Uno stakanovista come lui! E sempre dentro i confini della legge. E della morale, via: niente prostituzione di minorenni e robaccia simile, niente mercato di escort più o meno famose e di parlamentari più o meno moralmente puttaneschi; e niente concussione, nessuna campagna dossi eristica nei suoi immacolati giornali: tutte invenzioni delle procure politicizzate. Spalleggiati dai traditori alla Fini. Poi attacca Casini: “adesso escano dalle giunte” governate dal Pdl. E l’ondivago furbetto baciapile non è che non meriti qualche critica, ma non da quel pulpito. E ha un bel gridare all’indirizzo giusto, ma refrattario: “ora basta, è ridicolo. Così si paralizzano 6 regioni […] Berlusconi ha perso la testa […] I presidenti delle regioni non sono i camerieri di Arcore”. Sorpresa della Polverini dal ferace Lazio: “il premier non può aver detto quelle cose”. L’ingenua! Dopo tanta frequentazione politica non ha ancora imparato che il premier, con quella bocca immunizzata erga omnes et omnia, può dire tutto e il suo contrario. Ed è una pia intenzione sprecata (ancorché lodevole) quella di Sergio Romano che nell’editoriale odierno si sforza di condurre per mano il sulfureo premier verso Un momento di riflessione sul necessario primato delle istituzioni. Ecco un assaggio della lucida e dignitosa suasion: “Berlusconi si ritiene autorizzato a difendere se stesso in qualsiasi sede privata o pubblica, con video lanciati sul web, interventi telefonici durante i dibattiti televisivi e nelle conferenze stampa di Palazzo Chigi […] Rintuzzare l’aggressione di cui si ritiene vittima è ormai la parte più visibile della sua agenda politica. / Mi chiedo se si renda conto degli effetti che questa linea aggressiva e difensiva sta avendo per il Paese”. Ahinoi, è certo che di quegli effetti se ne in fischia, convinto com’è che la sua originalità vitalistica ed egocentrica li annebbierà agli occhi del tipo di persone cui la raccomanda: politici o civili che siano. Troppo lontana dalla consapevolezza che gli obblighi della presenza pubblica ad alto livello sono incompatibili con la sua sfrenatezza privata. Appelli simili a questo di Romano sono destinati a ispirare al grossolano viveur un’alzata di spalle, magari condita con un sorriso di saputa sufficienza. Quand’è così, riportiamo pure la chiusa del “sermone” romanesco, per apprezzare la nobile intenzione e l’abilità espressiva del suo intervento, ma chiedendoci, perfino, se non vi si possa leggere in trasparenza l’antefatto di una collegiale autorevole decisione della Direzione: “Ha fondato un partito che si chiamava Forza Italia. Cerchi di evitare che passi alla storia come il partito che ha reso il Paese rissoso all’interno e risibile agli occhi del mondo proprio nel momento in cui abbiamo maggiore bisogno di credito internazionale e di fiducia in noi stessi”.
Purtroppo per noi, l’uomo è convinto che chi la dura la vince, probabilmente reinterpretando il vecchio proverbio secondo il titolo di questo “diario”, ma senza punto interrogativo: Chi l’ha dura (la testa) la vince (la battaglia). Se poi a qualcuno venisse voglia di cogliere qualche allusione in quella testa pensando alla passione dominante del premier per il bel sesso tenero e fresco, be’ lasciamolo fare. C’è per nulla la libertà? E qui si chiude (ma non conclude) la prima puntata del mini-diario.
Pasquale Licciardello
venerdì 18 febbraio 2011
La lega, gli immigrati e gli orsi
In natura gli orsi cacciano le trote in Italia il trota, degno erede della dinastia bossi, e il suo partito hanno deciso di cacciare gli orsi! Vi giuro è vero. La lega vorrebbe cacciare/uccidere tutti gli orsi del Trentino provenienti dalla Slovenia in quanto stranieri e, perciò, più brutti, sporchi e cattivi degli orsi autoctoni.
Articolo 21 per Antonio Condorelli
Un giornalista che fa bene il proprio mestiere nel nostro Paese è spesso sottoposto ad attacchi feroci, sovente basati su menzogne e mistificazioni. Questo è grave in qualunque parte del Paese avvenga, assume però una valenza inquietante e drammatica quando accade in terra di mafia e quando a essere oggetto di attacchi di tal fatta è un giornalista come Antonio Condorelli, che ha già subito pesanti minacce mafiose, al punto da indurre il Prefetto ad assegnargli una forma di tutela da parte delle forze dell’ordine. Quello che sta avvenendo a Catania contro Antonio Condorelli, finito al centro di una campagna mediatica orchestrata dai suoi ex editori, assume le caratteristiche di una vera intimidazione che mira non solo a delegittimarlo, infangando la sua storia personale e professionale, ma soprattutto a isolarlo, esponendolo così a rischi altissimi... Abbiamo già visto molti anni fa questo sistema di delegittimazione all’opera attorno all’assassinio mafioso di Giuseppe Fava. Un metodo riproposto in maniera agghiacciante. Ascoltiamo insinuazioni, menzogne, per distruggere un giornalista scomodo e pericoloso per un sistema che vede a Catania immutato l’intreccio scelerato tra mafia, massoneria, pezzi dell’economia, della politica, editoria e persino elementi delle istituzioni. Condorelli ha denunciato tutto questo con le carte alla mano, seguendo sempre un metodo rigorosissimo, che onora la professione... Per tutto questo siamo vicini ad Antonio Condorelli e non lo lasceremo solo.
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Il mulo ministro
Il mulo è un nobile animale, paziente e volenteroso. Ha solo qualche difetto: scalcia, raglia e, si dice, non brilli per intelligenza. A volte, però, viene nominato ministro ed allora... perde tutte le caratteristiche positive mantenendo, ahilui, solo quelle negative.
venerdì 11 febbraio 2011
Libertà puttana
O vogliamo scrivere escort, in omaggio al cuore pulsante della nostra Era? Non si capisce perché era e perché nostra? Vorreste concedere di meno alla preminenza storica di tanto premier? Questa miniera di qualità, questo bouquet di virtù senza pari, questo autentico astro nel panorama etico-politico del nostro tempo e del nostro mondo. Forse in qualche altro pianeta lontano se ne troverà almeno il quasi equivalente, ma nel nostro chi oserà dubitare di questa unicità assoluta? A proposito di sistemi solari, qualche settimana fa gli astronomi ne hanno scoperto uno a duemila anni luce di distanza dal nostro. Ecco, forse in quel remoto angolo dell’Infinito pluri-galattico ci troverà un facsimile del cavaliere Silvio Berlusconi, in arte premier (in attesa di salire sull’irto Colle: perché irto? Be’, qualche ostacolo se l’è pur messo, lo Scalatore, sul sentiero che a quel Colle conduce, no?). Intanto io penso a quel sistema solare distante 2000 anni luce dalla terra: significa che noi lo “vediamo” com’era 2000 anni fa. Considerando che la luce viaggia a 300.000 chilometri al secondo, immaginiamo quanti ne entrano in quel mostro di cifra, che pure non è tra le alte di questo campo. Sia detto per ricordare come siano piccine le nostre faccende inserite nell’infinità del cosmo. E’ bene ricordarcelo, di tanto in tanto, per non soccombere di rabbia o di fame. Fosse pure soltanto fame di giustizia. Ma tenendo presente l’altra, la più elementare e drastica del biocosmo, presente e operante, con mostruosità quantitative di vittime, in gran parte del nostro bel pianeta azzurro (così dicono di vederlo gli astronauti dallo “spazio”), negli stessi tempi e in luoghi contigui a quelli dove si sciala di superprofitti, di megastipendi, di bonus a gogò per i bravi procacciatori di profitti. E per i nostri alacri parlamentari di vario livello e nomenclatura (nazionali, regionali…)
Da quanto ci è scappato finora dai tasti si sarà cominciato a intuire il nesso tra il sostantivo e l’aggettivo del titolo: com’altrimenti potremmo qualificare, noi, gli esclusi da questa macro-pacchia (del resto, neppur desiderabile), una libertà che concede tali favori in così spudorata impunità? Nell’antichità pagana e politeista era in uso la prostituzione sacra: belle fanciulle opportunamente selezionate (e onorate) sacrificavano la verginità a Venere e alle dee equivalenti delle religioni contemporanee. E restavano o venivano per un certo numero di giorni nel tempio della dea a fare le escort sacre. Nessuna vergogna, nessun disonore: questo era l’uso, questo il costume controllato dalla casta che in tutti i secoli e seculorum ha succhiato alla grassa mammella della Fede. Infatti, il gruzzoletto ammucchiato dalle generose prestazioni di quelle creature predilette veniva regolarmente (cioè, secondo le rigide regole di quel mercato) raccolto e gestito dai sapientissimi preti finanzieri. Oggi non abbiamo Veneri e Giovi, ma a una divinità sacrifichiamo pure, comprese verginità e dignità sessuale di giovani donne e tenere fanciulle (perfino minorenni). In queste nobili e pie imprese siamo assistiti dalla non meno sacra e più meritoriamente escort battezzata Libertà (la maiuscola è d’obbligo). La misteriosa divinità che onoriamo di sacrifici e nobili imprese è nota, fra quei perditempo dei moralisti, col nome di Mammona. Ecco un dio che dona gioia e soddisfazione senza limiti a chi lo onora, con la mediazione assistenziale della Libertà escort.
Che i dottori del liberismo non trovino nulla da obbiettare a simile civiltà, be’, fa parte del gioco. Un gioco che dura da millenni. Giusto perché nella fame originaria dell’animale come delle piante esiste un congegno di autoregolazione, in grazia del quale il soggetto trofico assorbe dall’ambiente quanto gli basta per “andare avanti” nel gioco (e col giogo) della vita. In certe piante (ficus e simili) questo freno non sembra funzionare. E nemmeno in certi animali: un barracuda divora incessantemente e un cetaceo ingurgita quintali di pesci e pesciolini al giorno. Ebbene, l’uomo, questo capolavoro della biogenesi evoluzionistica, è (parlando per generalia) meno dotato di freni inibitori per quanto riguarda certe trasposizioni dell’originaria fame alimentare: denaro in primis. Si dirà e il libero arbitrio? Ciarle di preti e filosofastri, ben confrontabili con quelle sulla libertà in generale. In realtà, l’unica chance che assiste homo sapiens sapiens (mai dimenticare il doppio aggettivo!) è questa possibilità di trasporre il cibo originario in altri cibi (di non immediato consumo ingestivo), denaro in primis, in quanto mezzo per altri consumi: notorietà, potere, sesso, e via salendo. La quantità di bipedi bulimici che sanno trasferire l’originaria pulsione fagica verso obiettivi di cultura scienza solidarietà e simili virtù è così esigua che non basta a compensare (tanto meno a frenare) l’ingordigia bulimica dei divoratori mammonici.
I quali, tuttavia, corrono un rischio: la rivolta dei popoli. O, se vogliamo essere più coerenti con l’ispirazione di questo sfogo, la rivolta dei paria, dei poveri, degli affamati di cibi primari, dei disperati, che l’oppressione dei ricchi, dei privilegiati, degli arroganti padroni finisce per spingere all’esasperazione. Arriva un punto di saturazione oltre il quale nessuna moltitudine resiste nella “virtù” della sopportazione inerte. O soltanto “scenografica” (cortei, slogan, sit-in, cartelloni…). Ed esplode. Come sta succedendo sotto i nostri occhi video-serviti e telematici, in questi giorni. Dal piccolo incendio della Tunisia si è arrivati al grande “spettacolo” dell’Egitto, transitando per l’Algeria, l’Albania, lo Yemen… E’ accaduto mille volte nella storia, ma homo memor super, con la sua memoria dilatata all’infinito dalla rivoluzione informatica, non sembra in grado di memorizzare a dovere questo piccolo particolare: prima o poi una rivolta incendia gli Stati radicati nell’eccesso delle disuguaglianze, della discriminazione fra privilegiati e sacrificati. E sia detto con tutte le gradazioni possibili e fattualmente verificabili nella distinzione binaria semplificatrice. Chi, fra i miliardari dello scippo economico e finanziario, e fra i politici stolti dei cosiddetti partiti moderati, non teme e non prevede esiti rivoluzionari al sangue come naturale effetto secondario (nei foglietti dei medicinali sta scritto “effetti collaterali”) dell’eccesso di sopraffazione, di vergogna immorale eccetera, è degno di una patente di imbecillità.
Ma se l’effetto collaterale più drammatico (rivolta e rivoluzione) è di lunga maturazione (fino a sembrare, a volte, impossibile), non c’è penuria di quelli quotidiani: l’economia liberista ne produce a milioni ogni giorno, ma queste sono le vittime invisibili, lontane dai nostri occhi e cuori intenti al nostro particolare. Di tanto in tanto un evento eclatante ci riporta al più tragico presente: eccone uno che, mentre scriviamo, impegna la rara sensibilità autentica dei più reattivi esemplari parlanti e l’eloquenza ciarlona dei talk show con relativi esperti preti psicologi e altre anime pie del presenzialismo mediatico. Stiamo alludendo all’incredibile morte dei quattro bambini rom bruciati vivi da un banale fenomeno di natura: un piccolo incendio di quella parodia di abitazione dove aspettavano i genitori usciti per racimolare qualche soldo. Immersi nell’indignazione occasionale, ascoltiamo belle parole e accorate analisi, ma intanto l’orrido destino delle quattro vittime scivola sul piano inclinato dell’assunzione mediatica: diventa uno dei tanti argomenti dello scialo verbale. Dentro il quale è ben difficile imbattersi nella giusta analisi delle cause remote e di sistema. Che, a ben guardare, impattano sempre nella Grande Meretrice Libertà.
La quale ha molte facce, com’è (o dovrebbe essere ) noto. Prendiamo la nobile finanza delle grandi firme, dei grossi operatori, delle impazienti traslazioni, delle scalate piratesche, dei matrimoni di stretto interesse ad augendum, e delle altre liberissime operazioni. Comprese quelle sporche di inside trading, libera pirateria e altre modalità operative del mammonismo rampante. Sappiamo tutti che certe operazioni riuscite hanno code criminose, cioè mortali per qualche singolo sconfitto. O drammatiche per popoli interi, esposti a conseguenze letali per molte loro unità individuali. Ma, siccome il sangue non ci scorre sotto gli occhi, questi effetti restano coperti al nostro sguardo. E nessuno li connetterebbe con la morte imperdonabile delle quattro vittime romane. Quando il sindaco Alemanno deplora l’accaduto e annuncia la distruzione degli alloggi abusivi (e precari) promettendo una sistemazione abitativa più sicura e legale, vien fatto di pensare: perché il problema si scopre solo ora? Risposta ovvia, ma sgradevole: perché il sindaco (come ogni suo pari) era in tutt’altre faccende affaccendato. Legittime, per carità, ma non fino al punto da lasciare a una banale luminaria “libertà” di uccidere atrocemente quattro innocenti. Magari tra queste faccende c’era la sanatoria per la molto libera (e poco onorata) parentopoli che ha fornito lavoro alla libera stampa e a quella meno libera
Le avatars della escort Libertà sono tante (fin troppe), e si può accennare soltanto (di volta in volta) a qualcuna. Per concedersi un piccolo abuso di riso amaro, (ben più di quello che fa il titolo di un famoso film con Silvana Mangano!) pensiamo ai becchini dei veleni che hanno promosso gran parte del nostro territorio a causa attiva di malattie mortali di corso più o meno lungo. Certe meritorie inchieste televisive mostrano casi talmente estremi da sfiorare l’incredibile: sono altamente inquinate zone più o meno ampie di territorio, corsi d’acqua, laghi, litorali, e persino mari, in Sicilia, Calabria, Puglia, Campania, Lazio (fino alle porte di Roma). E via salendo, ma in regime di attenuazione. Quest’ultima notizia va correlata al fatto che i nordici pagano operatori-traditori delle varie cosche malavitose e sbarcano i loro veleni nei territori dei sudici. Che poi accada il contrario per certi rifiuti speciali dipende dal fatto che al nord sono attrezzati. Come ragionano, committenti e specialisti operativi del crimine mal catalogato? Committenti: non siamo forse liberi di vendere la nostra mercanzia? Paghiamo, che si vuole di più? I criminali in primo piano: quanto chiasso! Che forse li buttiamo dentro le case, i rifiuti? E’ un lavoro come un altro, via. Come no! C’è per nulla la divina Libertà? L’esempio, tristemente dilagante, trasmette un messaggio che la retorica contro la pena di morte si rifiuta di ricevere: si può uccidere in mille modi, l’utilizzo della monnezza è solo uno (o un grappolo) dei tanti. I responsabili, in uno Stato normale, dovrebbero essere trattati come assassini. E’già difficile prenderli, si sa. Ma si sanno tante cose: per esempio, che certi politici sono creature della camorra o della ‘ndranghita o di “cosa nostra”: se ne parla, si accusa, ma gli amici degli amici sono ancora in Parlamento. In attesa delle prove processuali di terzo grado.
Dove si combatte sempre più vigorosamente contro quei pezzi della magistratura che tentano di fare il loro lavoro istituzionale, normale, naturale. Il premier non è d’accordo su quella doverosa normalità. E i giornali ricantano titoli inflazionati: I pm chiedono il giudizio immediato. Berlusconi: stanno violando la legge. Non rispettano il Parlamento (Corsera, 9 febbraio1). Caso Ruby, la richiesta dei pm: giudizio immediato per due reati […] concussione e prostituzione minorile. Affondo dei legali del Cavaliere. “Milano viola la Costituzione”(ib.). “Pm eversivi, farò causa allo Stato”Berlusconi pronto a portare al Quirinale il decreto sulle intercettazioni (Ib.,10. 02). E ancora: Pdl, documento anti giudici.“ Si vuole sovvertire il voto” Sfogo del premier: schifo eversivo. “Schifo” mi pare nuovo come insulto ai giudici. E forse anche “fango”; non così “vergogna” e altre qualifiche presenti nel testo dei vari servizi. Il Cavaliere si aggiorna. E intanto serra le file, come suona un altro titolo: Offensiva in Parlamento, parte la “chiamata alle armi”. Tutta questa frenesia (lei, sì eversiva) avviene mentre quel tronfio pseudo pretoriano della legalità, Marco Pannella, briga con tanto premier che della legalità fa strame da tre lustri. Sì, i volti (e le maschere) della Libertà escort sono tanti. Troppi. I più esilaranti sono quelli teorici, alla Ostellino, per esempio. Il quale, pranzando tutti i santi giorni con la divina avvolta nella vestaglia della teoresi pura, giunge anche a questa aurea tappa: se una donna scopre di essere “seduta sulla propria fortuna” e decide, per raggiungerla, di usarne l’avatar anatomico non è da criticare. Ognuno è libero di usare il proprio corpo come gli piace. E così anche se l’“ognuno” è una bella donna di ghiotte prosperità formali. Evviva la libertà. Che, tuttavia, dovrebbe valere (o no?) anche per chi si concede il capriccetto di criticare. Per esempio, distinguendo tra donna rispettabile e liberissima escort di vario livello. Compreso quello (sempre invidiabile per chi sta “seduta sulla propria fortuna”) delle Nicole Minetti, Nadia Macrì, Sara Tommasi e le altre colleghe del nuovo caso (in pieno travaglio mediatico) targato Napoli-Silvio Berlusconi.
Licenziamo questo scritto con un altro titolo piccante: Ferrara: manifesto contro i puritani.”Non voglio darla vinta a quelli del Palasharp, la loro è una crociata giacobina”. Dove si vede (ancora una volta) che la Libertà può essere una escort disponibile a qualsiasi trattamento: teorico e pratico. Ma sull’elefantino del Foglio sarà il caso (forse) di intervenire con un altro libero sfogo. E ci congediamo da questo con un altro primato semantico della divina escort. Lo segnala l’infaticabile Gian Antonio Stella, svelatore di magagne, fustigatore di escort di ogni genere, sotto questo titolo (Corsera del 29. 12. 2010): Senatori stakanovisti. Ma quando mai. Il 23 dicembre scorso il presidente del Senato, Schifani, fila questa sviolinata ad usum delphini :”da tempo vi è nel nostro Paese una campagna contro pezzi delle istituzioni, viste come ‘casta’. La migliore risposta che questo ramo del Parlamento sta dando a chi intende essere polemico nei suoi confronti è che oggi, 23 dicembre, alle ore 17, all’antivigilia di Natale, siamo ancora qui a lavorare.” Dopo applausi, la scintillante prosa riprende il suo libero corso: “Credo che questa sia una risposta fattuale, a dimostrazione del fatto [sic] che non siamo una casta; siamo persone, possiamo sbagliare o meno, ma sicuramente lavoriamo nell’interesse e per il bene del Paese”. All’originale exploit oratorio segue questo annuncio: “Il Senato tornerà a riunirsi mercoledì 12 gennaio 2011”. Postilla Stella, col solito humour: “Cioè venti giorni dopo. Il tempo necessario a festeggiare Gesù Bambino, S. Stefano, S. Giovanni Evangelista, S. Silvestro, S. Fulgenzio, l’Epifania e un’ultima domenica di festa con allegati (massì esageriamo) il lunedì e il martedì successivi. Un mega-ponte esteso a tre campate settimanali. Evviva.” E ricorda a questi patres Patriae stakanovisti secundum quid che l’aula di Palazzo Madama era stata convocata appena “117 su 365. Due alla settimana. Con un minimo di 4 giorni in agosto (che afa! che afa!) e un massimo di 13 giorni (massacrante: quasi uno su 3!) in maggio”. Che dire? L’autore della Casta continua, bensì, ma noi chiudiamo qui, con un saluto alla Libertà escort. E un inchino alla sua sempre verde fortuna mondiale.
Pasquale Licciardello
mercoledì 9 febbraio 2011
venerdì 4 febbraio 2011
mercoledì 2 febbraio 2011
La politica fra farsa e dramma
Da quando Berlusconi ha serrato le file dei suoi uomini per una difesa ad oltranza dalle pesanti ipotesi di reato le azioni della Farsa sono salite nella metaforica Borsa più di ogni concorrenza istituzionale. Gli spettacoli comici si susseguono nelle televisioni nostrane e forestiere con ritmo euforico, banchettando con le sparate sempre più pirotecniche e acrobatiche dei suoi pretoriani e ospiti --commensali a menu fisso e à la carte. Tutt’intorno al nostro Stivale, però, si susseguono suoni e clangori di ben altro timbro e tonalità: le rivolte arabo-africane (Tunisia, Algeria, e, buon ultimo, Egitto, che irradia notizie ogni giorno più “al sangue”), quella albanese (tuttora non risolta) e i “soliti” focolai mediorientali mandano messaggi di fosca serietà assassina. Non meno degli attentati terroristici di matrice islamica sparsi sui quattro punti cardinali (dalla Cecenia alla Russia, al Pakistan): segnali, tutti, di un malcontento generalizzato che può esplodere in ogni angolo del pianeta, e che intanto agita, con i suoi morti e feriti, in crescita numerica e ponderale, mari e oceani della Politica. Mentre la causa “magistralis” del fenomeno, il liberismo globale sfrenato verso la cupidigia mammonica, viene “liberamente” ignorata come incognita non presentabile della complessa equazione.
Farsa e tragedia si sono sempre mescolate nella storia della turbolenta “razza umana”, e certamente il passato, remoto (in chiave secolare) o recente (in termini di decenni) ha conosciuto drammi e tragedie ben più spaventose delle presenti. Ma questo non ci garantisce l’esclusione da quei precedenti in eventuale estro di ritorno fastoso. Forse è anche questo dubbio e paura a muovere la frequenza delle trasmissioni sulla seconda guerra mondiale, sugli aspetti di essa più atroci (i bombardamenti sulle città, i campi di sterminio nazisti, e altro bene, fino al sommo picco di barbarie delle due atomiche americane sganciate sugli innocenti civili di Hiroshima e Nagasaki a farne istantanee “ombre” sui muri (i “fortunati”) e (gli sfortunati) corpi seviziati di pluridecennale durata in grazia della radioattività di lungo corso).
Se c’è una certezza nella memoria storica dell’umanità più sveglia è quella dell’incapacità dell’uomo-massa di ricordare a lungo,e, soprattutto, di trarre vantaggio dagli errori e orrori del suo passato. Ora dire che il politico di media o infima levatura (cioè della qualità nettamente prevalente) è incapace di tesorizzare l’esperienza storica è un’ovvietà impositiva per chi, estraneo a quella “levatura”, segue con attenzione le vicende collettive dei suoi simili. Specialmente se lo fa per ragioni professionali. Chi scrive ricorda (e ha citato in suoi precedenti scritti) che al tempo della sciagurata guerra di aggressione al Vietnam l’aspirante alla Casa Bianca, Goldwater e i generali che gli stavano dietro consigliavano l’uso di atomiche contro quel fiero Paese aggredito con spudorati pretesti. E siamo pur certi che nel mondo ricco ci sono centinaia di migliaia di rifugi atomici: come dire, la certezza che un conflitto atomico non si può escludere dal cielo cieco del futuro umano. E qui tocchiamo con polpastrelli tremanti, ancora una volta, il dominio della stupidità sull’intelligenza creativa: quale altra “fede” potrebbe suggerire l’idea che in quei lugubri sotterranei super-blindati sarebbe possibile una vita degna di essere vissuta?
Ma torniamo al nostro cortile nazionale. E al suo nuovo presente in ebollizione affollata. L’intensificarsi della farsa ruby-arcoriana si può cogliere in molte occasioni con differenti modalità e intensità. I portavoce del Cavaliere dai molti cavalli si mostrano sempre più impermeabili all’evidenza dei troppi fatti, sempre più nervosi e scattanti nel sovrapporsi a qualunque avversario stia parlando in un talk show: Ballarò o Annozero, L’infedele o Agorà, o altri minori. Si scalmanano contro le tabelle statistiche che mostrano arretramenti della loro parrocchia politica, ripetono monotonie sillabate sui grandi meriti del governo dei miracoli, annunciano stanziamenti favolosi per questo o quel settore di urgenza finanziaria, e fingono di ignorare quello che i gabbati non dimenticano: e cioè che quelle cifre-miracolo sono destinate, in massima parte, a restare flatus vocis, vento di promesse verbali sospese. Altra presenzialità intensificata è la prassi del premier di lanciare sugli incolpevoli conduttori dei talk show sgraditi telefonate reboanti come scariche di artiglieria: e cioè, insulti a gogò, stile Santanchè. L’ultimo caso, mentre scriviamo, è stato lo scontro con Gad Lerner. Diciamo scontro, per ché Lerner non ha assorbito in rispettoso silenzio (come ha fatto qualcun altro) l’irrituale insulto, anzi ha replicato con sdegnata esplicitezza, dando del “cafone” al premier dal facile insulto. Che sta in questi termini di piombo: la trasmissione sarebbe “disgustosa, con una conduzione spregevole, turpe e ripugnante”. E scusate se è poco.
Insomma, la gravità multilaterale del nuovo scandalo (in attesa del prossimo) ha diffuso nervosismo e impaccio, emozioni che la pressione del Capo per una difesa-attacco senza quartiere ha esasperato in comportamenti e dichiarazioni da pura farsa. Non è farsesco, per citare uno dei pesi massimi della corte, Roberto Formigoni, questo tempio di purezza e castità ostentata che dichiara di aspettare ancora l’esito dell’intervento giudiziario per esprimere un giudizio, che in realtà già esprime con cautela pelosa da perfetto fariseo impudente? Il vezzeggiato governatore, a chi, nel partito, spinge per le dimissioni di Nicole Minetti (come la consigliera Sara Giudice), dichiara, con malcelata complicità verso il Colpevole: le dimissioni “sarebbero l’ammissione di una colpevolezza che non è stata ancora accertata dalla magistratura nemmeno in primo grado”. In gara col Formicone lombardo, il coordinatore locale del Pdl, degno concorrente al primato farsesco, spara da un ideale pulpito queste sonanti maiuscole: “Non possiamo mettere in dubito la presunzione d’innocenza, un principio fondamentale di civiltà”. Terzo concorrente al primato, Marco Valerio Bove (ma che cognomi!), coordinatore provinciale dei giovani dello stesso partito-miracolo, sentenzia, allusivo: “La Giudice rappresenta solo se stessa e la sua iniziativa non risulta condivisa dai nostri iscritti e simpatizzanti. E in un Paese democratico, com’è il nostro, nessuno, soprattutto la Giudice, dovrebbe arrogarsi il diritto di emettere sentenze sulla base di anticipazioni giornalistiche su indagini ancora in fase istruttoria”. Insomma, questi paladini dell’innocenza riducono la question a un puro caso giuridico: l’aspetto morale non li coinvolge. Il che è più grave per mister castità, questo campione di un cattolicesimo faccendiero e accomodante (fin dalla scelta di campo politica). Ricordiamo al lettore che la Minetti era stata imposta dal Cavaliere in persona nella lista bloccata di Formigoni. E al Bove che la Giudice ha dietro di sé un manipolo di giovani pidiellini che hanno raccolto qualche migliaio di firme per smuovere il partito verso le dimissioni della beniamina arcoriana (ora sfrattata, con le ragazze ospiti, dalle dimore in affitto dell’Olgettina).
Tutto questo, mentre la escort Nadia Macrì rovescia un Decamerone di spassi sessuali estrosamente variegati, e i pm frugano cellulari, intercettazioni e tabulati in caccia di riscontri e rivelazioni. Si smentisce la Macrì su un dettaglio e subito una grandinata di sberleffi la bombarda: Ruby non sarebbe stata in casa Berlusconi la sera indicata da lei. Non è ammissibile un fallo di memoria su una data? Queste, ad ogni modo, le sue parole, ad Annozero: “Ad Arcore ero con Ruby e sono stata testimone di scene di sesso col premier […] Io e Ruby siamo state personalmente pagate da Berlusconi con 5 mila euro a testa”. Questa “recita” doveva essere “la pistola fumante” dell’accusa giudiziaria. Pare che, nel breve tempo, il fumo si sia moltiplicato un po’ troppo, e fino a far trapelare dalla procura riserve su un “racconto non sempre lineare”. Staremo a vedere. Intanto ascoltiamo altre posizioni. Per esempio, quella di una signora di spicco sociale, Isabella Rauti, figlia del fascistone Pino Rauti, moglie del sindaco di Roma Alemanno e consigliere regionale del Pdl. Il titolo dell’intervista del Corsera sintetizza la sua perplessità: “C’è un disagio diffuso L’Italia sana reagisca”. Non assolve e non condanna, la signora, ma lancia “un appello bipartisan” per la difesa dell’ “immagine femminile e per evitare che la valanga di fango che si è scatenata comprometta l’immagine che il Paese ha di se stesso”. Alla domanda se “sta criticando Berlusconi” la signora svicola e propone di “cambiare le domande” per cercar di “ottenere altre risposte dalle donne del Pdl”. In che senso? Eccolo: “Occorre uscire dal referendum pro o contro Berlusconi, smettere di accanirsi su di lui”. Accanirsi? Ma se è quasi impossibile dire abbastanza contro questa caricatura di politico, di premier, di messaggero di un Paese fin troppo diviso e discutibile, già di suo, ma reso ancora più sfigurato da questo premierato anomalo. E così anche la signora Rauti in Alemanno manca del coraggio di un giudizio chiaro e serio. E si rifugia nel solito ritornello della presunzione d’innocenza, non senza un azzardo comico su quella del Principale sboccato: “Delle accuse nei suoi confronti, secondo me infondate [sic], si occuperà la magistratura”. E gira la frittata dilatando il quadro di riferimento su “questa Italia malata che vuole tutto facile, che cerca scorciatoie e pensa che tutto possa essere comprato o venduto. Compreso il corpo delle donne.” Incalzata sul Principale, certo fra i massimi credenti in questa religione del denaro che compra tutto, anche quel corpo femminile di cui è ghiotto, madame la sindachessa annaspa, svicola in angolo: “Credo che questa Italia che emerge esista indipendentemente da Berlusconi e ci sarà anche dopo di lui”. Come se il modello mammonico--mandrillesco del suo arruolatore fosse ininfluente nel confermare e aggravare il malcostume denunciato. E così, scantonando di qua e di là, donna Isabella dà il massimo di schiettezza di cui son capaci le pidielline promosse dal Cavaliere. Infatti l’altra donna targata Pdl, (intervista parallela nel Corsera), Nunzia Di Girolamo, “giovane deputata del Pdl. Avvocato e senza nessun passato da velina”, scantona ben di più. E sfreccia con faccia tosta coriacea, attaccando subito le colleghe: “Le donne del Pdl che manifestano contro di noi? Ipocrite. Sfilano contro la vita privata del premier, non per la dignità delle donne”. Sottinteso, la vita privata del Capo è insindacabile, anche se sputtana l’Italia intera. E avanti con la consueta generalizzazione che prepara l’assoluzione del Cattivo maestro: “Da questa vicenda esce uno spaccato della società inquietante, è inutile negarlo. Donne che cercano una scorciatoia, famiglie che le spingono in quella direzione. Non possiamo mettere la testa sulla [sic] sabbia. Ma c’è troppa curiosità morbosa contro il premier ed è ipocrita chiedere le sue dimissioni”. E naturalmente, “non entra nei fatti morali [ancora sic] e non si permette “di imporre il codice comportamentale agli altri”: come fanno le sue colleghe. Lei attende l’esito delle correlate vicende giudiziarie, purché si rispetti “il criterio del giudice naturale”. Leggi: che sia il Tribunale dei ministri a giudicare mastro don Silvio, loro capo. Gli elettori? “Si sono già espressi moralmente rispetto a Silvio Berlusconi e a ciò che fa rispetto alla sua passione per le donne: votandolo”. Il resto, sullo stesso tono, vanificando l’incalzare del giornalista abilmente “provocatore”. Ma il meglio del loro talento le arcoriane lo rivelano nei talk show: un accigliato spettacolo di petulanza farsesca ci viene, per esempio, dalla deputata Laura Ravetto, presenza loquace del talk seminotturno L’ultima parola (Rai Due, 28. 01) condotta da un tizio (non si possono ricordare tutti i nomi che ci “investono”) inclinato a destra. La poco petrarchesca Laura dal cipiglio aquilino non perdette occasione di sproloquiare nel nome di San Silvio servando. Il fatto che tutte queste devote ripetano lo stesso ritornello, con poche varianti verbali, non può stupire: sono creature di levatura mentale limitata, inclini ad assorbire passivamente l’unica lectio magistralis che il loro magister ripete varie volte al giorno.
Naturalmente, il primatista assoluto delle sortite farsesche resta il Cavaliere. Che sbraita a destra e a manca, instancabilmente, delegando ai suoi troppi servitori riconoscenti il disbrigo di faccenduole come l’acquisto di un silenzio testimoniale, di una ritrattazione, di qualche bugia grossa e grassa, e simile mercanzia. Tra le più recenti esternazioni, le seguenti, l’una più sbilanciata dell’altra. “Nonostante quello che succede, vado avanti sereno e determinato. Non c’è alternativa al nostro governo”: parole che il leader rivolge a un suo uomo di eccezionale fedeltà canina, quel Francesco Pionati, inventore di una Alleanza di centro devota alla Causa perinde ac cadaver (come nella formula dei gesuiti alla Santa Madre Chiesa). Ispirato profeta del Nulla fatto idea, l’altra sera si scambiava complimenti col capo dalla sala di un convegno della nuova invenzione politica. Inquadrando l’inventore sul podio, la telecamera mostrava file di occipiti senili: spettacolo farsesco quanto mai. Ma che faceva quasi tenerezza: quali manovre di persuasione suggerivano quei crani canuti e quasi implumi per staccarli dal Pierferdi nazionale, alias Casini? O arruolarli vergini di precedenti “incasinati”? Ma continuiamo con le battute premierasche. Casini? Rutelli? Che vadano a farsi benedire: “Senza di loro siamo più forti e determinati che mai, ora andiamo avanti liberi dai condizionamenti di chi stava nel centro destra, e mi riferisco a Fini e Casini, che erano lì solo per sabotare l’azione di governo”. Di balzo in balzo: Terzo polo? Ma mi facciano il piacere (sorride il Principe senza corona alla maniera del coronato Totò, principe De Curtis): Io sarei “un prodotto scaduto della prima Repubblica? Ma siete voi “un assemblaggio di spezzoni del passato”! Anzi, peggio, spiega in altra battuta al vetriolo: “Sono relitti, che si sono messi assieme in nome di un certo modo di intendere la politica”. E, per non restare nel vago, precisa: “hanno una mentalità che non è neppure in grado di capire che governare è fare, è cambiare le cose, modernizzare l’Italia”. E qui, ahimè, non ci possiamo esimere dal bisogno di lanciare uno sguardo circolare su questa nuova Italia cambiata dal fare berlusconico. Fare? Come no. Ma poco, nell’ordine civile, politico, emergenziale, e spacciarlo, sempre, in barba alle smentite fattuali e polemiche, per molto e moltissimo e risolutivo (di drammi di varia natura e tessitura: sismici, sociali, “rifiutarii”, e via enunciando). L’altro genere di cambiamento, però, è innegabile: deliziose feste goderecce con ghiotte portate di esperte donnine e di tenere fanciulle (a detta dei giudici “rossi”) anche minorenni. Ma di questo lieto fare, basti il cenno, per ora, in attesa delle novità più fresche (o, piuttosto, calde) sull’interrogatorio della Minetti sotto torchio in Procura mentre scriviamo.
L’ultima novità di peso è una lettera del premier al Corriere della sera in cui, riallacciandosi a un articolo di Dario Di Vico che sconsigliava la patrimoniale suggerita da Giuliano Amato (per “il rischio di punire solo il ceto medio”), il Cavaliere si butta a corpo morto (anzi, rivitalizzato) in una specie di dissertazione in difesa di una maggiore libertà economica come garanzia di una stimolata crescita assistita da cautela fiscale per le imprese. Naturalmente, di don Silvio c’è solo la firma: dalla prima all’ultima riga si sente la mano esperta del ministro Tremonti. Viene spontaneo ricordare una frase celebre: agnosco stylum Romanae Curiae: ma quello “stilo” era un pugnale entrato nella carne del personaggio che pronunciò la frase, quello di Tremonti (o dell’eventuale, non probabile, “chi per lui”) è un pezzo di bella scrittura: varia di proprietà lessicale, di brillante scioltezza espositiva, di salda sintassi logica (prima che grammaticale), puntuale nelle immagini e traslati in genere. Il titolo dato dal Corsera è da glamour: Berlusconi: “Un piano bipartisan per rilanciare insieme la crescita”. Nel “catenaccio” una frase di tono ippico: “Mai una patrimoniale, serve una frustata per la ripresa non una botta ingiusta”. Un po’ strana (e fuori tempo massimo) appare l’appello a Bersani: “propongo al segretario del Pd di agire insieme in Parlamento”. Più calzante l’elogio della Merker e il suo raccordo con Gerard Schroeder, l’ex premier socialdemocratico: “E i risultati sono sotto gli occhi di tutti: la locomotiva è ripartita”. Tutto berlusconico, invece, sembra l’ottimismo previsionale (che, però, Tremonti non poteva respingere: noblesse oblige):”Noi, specialmente dopo il varo dello storico accordo sulle relazioni sociali di Pomigliano e Mirafiori, possiamo fare altrettanto”. Anche se non si nasconde, dice, “il problema della particolare aggressività che, per ragioni come sempre esterne alla dialettica sociale e parlamentare, affligge il sistema politico”. E non si pensi che non se ne dolga, il sensibile capo del Governo: “Ne sono preoccupato come e più del presidente Napolitano”. Ecco un “più” che si poteva evitare: ma certe concessioni all’umore di un Capo bisogna farle. Qui, dire “se son rose…” può apparire pleonastico. Perfino frivolo, visto che del Facilone di Arcore si può dire, con Terenzio: Nil est dictu facilius (“Niente è più facile che parlare”). E pure applicargli il monito di Cicerone: Ut sementem feceris ita metes (“Come avrai seminato, così raccoglierai”).
Naturalmente, lui se ne infischia di tali uccelli di malaugurio, e continua le sue esternazioni ottimistiche: il premier esclude le urne: ho avuto sette fiducie. “Ci sarebbero contraccolpi sui mercati”, Ma non teme gli avversari: tutti insieme? Ci fanno un favore. Di questo “tutti insieme” (proposta-ipotesi di D’Alema) non è convinto Di Pietro. Che usa le sue colorite metafore: “Un’alleanza costituente sarebbe come un accoppiamento contro natura”. Più diretto l’”invito” del leghista Marco Reguzzoni: “A D’Alema consiglierei di uscire un po’ dai palazzi e toccare con mano il Paese reale”. Dove si vede che anche un leghista può dire cose valide. Intanto, fra movimenti e aggregazioni più o meno effimeri e di circostanza, il Cavaliere incassa il no netto di Bertani e se ne irrita, more solito, scaricando sull’avversario la responsabilità di tutti i guasti e i rischi implosivi del “sistema Italia”.
Pasquale Licciardello
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