mercoledì 2 febbraio 2011

La politica fra farsa e dramma

Da quando Berlusconi ha serrato le file dei suoi uomini per una difesa ad oltranza dalle pesanti ipotesi di reato le azioni della Farsa sono salite nella metaforica Borsa più di ogni concorrenza istituzionale. Gli spettacoli comici si susseguono nelle televisioni nostrane e forestiere con ritmo euforico, banchettando con le sparate sempre più pirotecniche e acrobatiche dei suoi pretoriani e ospiti --commensali a menu fisso e à la carte. Tutt’intorno al nostro Stivale, però, si susseguono suoni e clangori di ben altro timbro e tonalità: le rivolte arabo-africane (Tunisia, Algeria, e, buon ultimo, Egitto, che irradia notizie ogni giorno più “al sangue”), quella albanese (tuttora non risolta) e i “soliti” focolai mediorientali mandano messaggi di fosca serietà assassina. Non meno degli attentati terroristici di matrice islamica sparsi sui quattro punti cardinali (dalla Cecenia alla Russia, al Pakistan): segnali, tutti, di un malcontento generalizzato che può esplodere in ogni angolo del pianeta, e che intanto agita, con i suoi morti e feriti, in crescita numerica e ponderale, mari e oceani della Politica. Mentre la causa “magistralis” del fenomeno, il liberismo globale sfrenato verso la cupidigia mammonica, viene “liberamente” ignorata come incognita non presentabile della complessa equazione.
Farsa e tragedia si sono sempre mescolate nella storia della turbolenta “razza umana”, e certamente il passato, remoto (in chiave secolare) o recente (in termini di decenni) ha conosciuto drammi e tragedie ben più spaventose delle presenti. Ma questo non ci garantisce l’esclusione da quei precedenti in eventuale estro di ritorno fastoso. Forse è anche questo dubbio e paura a muovere la frequenza delle trasmissioni sulla seconda guerra mondiale, sugli aspetti di essa più atroci (i bombardamenti sulle città, i campi di sterminio nazisti, e altro bene, fino al sommo picco di barbarie delle due atomiche americane sganciate sugli innocenti civili di Hiroshima e Nagasaki a farne istantanee “ombre” sui muri (i “fortunati”) e (gli sfortunati) corpi seviziati di pluridecennale durata in grazia della radioattività di lungo corso).
Se c’è una certezza nella memoria storica dell’umanità più sveglia è quella dell’incapacità dell’uomo-massa di ricordare a lungo,e, soprattutto, di trarre vantaggio dagli errori e orrori del suo passato. Ora dire che il politico di media o infima levatura (cioè della qualità nettamente prevalente) è incapace di tesorizzare l’esperienza storica è un’ovvietà impositiva per chi, estraneo a quella “levatura”, segue con attenzione le vicende collettive dei suoi simili. Specialmente se lo fa per ragioni professionali. Chi scrive ricorda (e ha citato in suoi precedenti scritti) che al tempo della sciagurata guerra di aggressione al Vietnam l’aspirante alla Casa Bianca, Goldwater e i generali che gli stavano dietro consigliavano l’uso di atomiche contro quel fiero Paese aggredito con spudorati pretesti. E siamo pur certi che nel mondo ricco ci sono centinaia di migliaia di rifugi atomici: come dire, la certezza che un conflitto atomico non si può escludere dal cielo cieco del futuro umano. E qui tocchiamo con polpastrelli tremanti, ancora una volta, il dominio della stupidità sull’intelligenza creativa: quale altra “fede” potrebbe suggerire l’idea che in quei lugubri sotterranei super-blindati sarebbe possibile una vita degna di essere vissuta?
Ma torniamo al nostro cortile nazionale. E al suo nuovo presente in ebollizione affollata. L’intensificarsi della farsa ruby-arcoriana si può cogliere in molte occasioni con differenti modalità e intensità. I portavoce del Cavaliere dai molti cavalli si mostrano sempre più impermeabili all’evidenza dei troppi fatti, sempre più nervosi e scattanti nel sovrapporsi a qualunque avversario stia parlando in un talk show: Ballarò o Annozero, L’infedele o Agorà, o altri minori. Si scalmanano contro le tabelle statistiche che mostrano arretramenti della loro parrocchia politica, ripetono monotonie sillabate sui grandi meriti del governo dei miracoli, annunciano stanziamenti favolosi per questo o quel settore di urgenza finanziaria, e fingono di ignorare quello che i gabbati non dimenticano: e cioè che quelle cifre-miracolo sono destinate, in massima parte, a restare flatus vocis, vento di promesse verbali sospese. Altra presenzialità intensificata è la prassi del premier di lanciare sugli incolpevoli conduttori dei talk show sgraditi telefonate reboanti come scariche di artiglieria: e cioè, insulti a gogò, stile Santanchè. L’ultimo caso, mentre scriviamo, è stato lo scontro con Gad Lerner. Diciamo scontro, per ché Lerner non ha assorbito in rispettoso silenzio (come ha fatto qualcun altro) l’irrituale insulto, anzi ha replicato con sdegnata esplicitezza, dando del “cafone” al premier dal facile insulto. Che sta in questi termini di piombo: la trasmissione sarebbe “disgustosa, con una conduzione spregevole, turpe e ripugnante”. E scusate se è poco.
Insomma, la gravità multilaterale del nuovo scandalo (in attesa del prossimo) ha diffuso nervosismo e impaccio, emozioni che la pressione del Capo per una difesa-attacco senza quartiere ha esasperato in comportamenti e dichiarazioni da pura farsa. Non è farsesco, per citare uno dei pesi massimi della corte, Roberto Formigoni, questo tempio di purezza e castità ostentata che dichiara di aspettare ancora l’esito dell’intervento giudiziario per esprimere un giudizio, che in realtà già esprime con cautela pelosa da perfetto fariseo impudente? Il vezzeggiato governatore, a chi, nel partito, spinge per le dimissioni di Nicole Minetti (come la consigliera Sara Giudice), dichiara, con malcelata complicità verso il Colpevole: le dimissioni “sarebbero l’ammissione di una colpevolezza che non è stata ancora accertata dalla magistratura nemmeno in primo grado”. In gara col Formicone lombardo, il coordinatore locale del Pdl, degno concorrente al primato farsesco, spara da un ideale pulpito queste sonanti maiuscole: “Non possiamo mettere in dubito la presunzione d’innocenza, un principio fondamentale di civiltà”. Terzo concorrente al primato, Marco Valerio Bove (ma che cognomi!), coordinatore provinciale dei giovani dello stesso partito-miracolo, sentenzia, allusivo: “La Giudice rappresenta solo se stessa e la sua iniziativa non risulta condivisa dai nostri iscritti e simpatizzanti. E in un Paese democratico, com’è il nostro, nessuno, soprattutto la Giudice, dovrebbe arrogarsi il diritto di emettere sentenze sulla base di anticipazioni giornalistiche su indagini ancora in fase istruttoria”. Insomma, questi paladini dell’innocenza riducono la question a un puro caso giuridico: l’aspetto morale non li coinvolge. Il che è più grave per mister castità, questo campione di un cattolicesimo faccendiero e accomodante (fin dalla scelta di campo politica). Ricordiamo al lettore che la Minetti era stata imposta dal Cavaliere in persona nella lista bloccata di Formigoni. E al Bove che la Giudice ha dietro di sé un manipolo di giovani pidiellini che hanno raccolto qualche migliaio di firme per smuovere il partito verso le dimissioni della beniamina arcoriana (ora sfrattata, con le ragazze ospiti, dalle dimore in affitto dell’Olgettina).
Tutto questo, mentre la escort Nadia Macrì rovescia un Decamerone di spassi sessuali estrosamente variegati, e i pm frugano cellulari, intercettazioni e tabulati in caccia di riscontri e rivelazioni. Si smentisce la Macrì su un dettaglio e subito una grandinata di sberleffi la bombarda: Ruby non sarebbe stata in casa Berlusconi la sera indicata da lei. Non è ammissibile un fallo di memoria su una data? Queste, ad ogni modo, le sue parole, ad Annozero: “Ad Arcore ero con Ruby e sono stata testimone di scene di sesso col premier […] Io e Ruby siamo state personalmente pagate da Berlusconi con 5 mila euro a testa”. Questa “recita” doveva essere “la pistola fumante” dell’accusa giudiziaria. Pare che, nel breve tempo, il fumo si sia moltiplicato un po’ troppo, e fino a far trapelare dalla procura riserve su un “racconto non sempre lineare”. Staremo a vedere. Intanto ascoltiamo altre posizioni. Per esempio, quella di una signora di spicco sociale, Isabella Rauti, figlia del fascistone Pino Rauti, moglie del sindaco di Roma Alemanno e consigliere regionale del Pdl. Il titolo dell’intervista del Corsera sintetizza la sua perplessità: “C’è un disagio diffuso L’Italia sana reagisca”. Non assolve e non condanna, la signora, ma lancia “un appello bipartisan” per la difesa dell’ “immagine femminile e per evitare che la valanga di fango che si è scatenata comprometta l’immagine che il Paese ha di se stesso”. Alla domanda se “sta criticando Berlusconi” la signora svicola e propone di “cambiare le domande” per cercar di “ottenere altre risposte dalle donne del Pdl”. In che senso? Eccolo: “Occorre uscire dal referendum pro o contro Berlusconi, smettere di accanirsi su di lui”. Accanirsi? Ma se è quasi impossibile dire abbastanza contro questa caricatura di politico, di premier, di messaggero di un Paese fin troppo diviso e discutibile, già di suo, ma reso ancora più sfigurato da questo premierato anomalo. E così anche la signora Rauti in Alemanno manca del coraggio di un giudizio chiaro e serio. E si rifugia nel solito ritornello della presunzione d’innocenza, non senza un azzardo comico su quella del Principale sboccato: “Delle accuse nei suoi confronti, secondo me infondate [sic], si occuperà la magistratura”. E gira la frittata dilatando il quadro di riferimento su “questa Italia malata che vuole tutto facile, che cerca scorciatoie e pensa che tutto possa essere comprato o venduto. Compreso il corpo delle donne.” Incalzata sul Principale, certo fra i massimi credenti in questa religione del denaro che compra tutto, anche quel corpo femminile di cui è ghiotto, madame la sindachessa annaspa, svicola in angolo: “Credo che questa Italia che emerge esista indipendentemente da Berlusconi e ci sarà anche dopo di lui”. Come se il modello mammonico--mandrillesco del suo arruolatore fosse ininfluente nel confermare e aggravare il malcostume denunciato. E così, scantonando di qua e di là, donna Isabella dà il massimo di schiettezza di cui son capaci le pidielline promosse dal Cavaliere. Infatti l’altra donna targata Pdl, (intervista parallela nel Corsera), Nunzia Di Girolamo, “giovane deputata del Pdl. Avvocato e senza nessun passato da velina”, scantona ben di più. E sfreccia con faccia tosta coriacea, attaccando subito le colleghe: “Le donne del Pdl che manifestano contro di noi? Ipocrite. Sfilano contro la vita privata del premier, non per la dignità delle donne”. Sottinteso, la vita privata del Capo è insindacabile, anche se sputtana l’Italia intera. E avanti con la consueta generalizzazione che prepara l’assoluzione del Cattivo maestro: “Da questa vicenda esce uno spaccato della società inquietante, è inutile negarlo. Donne che cercano una scorciatoia, famiglie che le spingono in quella direzione. Non possiamo mettere la testa sulla [sic] sabbia. Ma c’è troppa curiosità morbosa contro il premier ed è ipocrita chiedere le sue dimissioni”. E naturalmente, “non entra nei fatti morali [ancora sic] e non si permette “di imporre il codice comportamentale agli altri”: come fanno le sue colleghe. Lei attende l’esito delle correlate vicende giudiziarie, purché si rispetti “il criterio del giudice naturale”. Leggi: che sia il Tribunale dei ministri a giudicare mastro don Silvio, loro capo. Gli elettori? “Si sono già espressi moralmente rispetto a Silvio Berlusconi e a ciò che fa rispetto alla sua passione per le donne: votandolo”. Il resto, sullo stesso tono, vanificando l’incalzare del giornalista abilmente “provocatore”. Ma il meglio del loro talento le arcoriane lo rivelano nei talk show: un accigliato spettacolo di petulanza farsesca ci viene, per esempio, dalla deputata Laura Ravetto, presenza loquace del talk seminotturno L’ultima parola (Rai Due, 28. 01) condotta da un tizio (non si possono ricordare tutti i nomi che ci “investono”) inclinato a destra. La poco petrarchesca Laura dal cipiglio aquilino non perdette occasione di sproloquiare nel nome di San Silvio servando. Il fatto che tutte queste devote ripetano lo stesso ritornello, con poche varianti verbali, non può stupire: sono creature di levatura mentale limitata, inclini ad assorbire passivamente l’unica lectio magistralis che il loro magister ripete varie volte al giorno.
Naturalmente, il primatista assoluto delle sortite farsesche resta il Cavaliere. Che sbraita a destra e a manca, instancabilmente, delegando ai suoi troppi servitori riconoscenti il disbrigo di faccenduole come l’acquisto di un silenzio testimoniale, di una ritrattazione, di qualche bugia grossa e grassa, e simile mercanzia. Tra le più recenti esternazioni, le seguenti, l’una più sbilanciata dell’altra. “Nonostante quello che succede, vado avanti sereno e determinato. Non c’è alternativa al nostro governo”: parole che il leader rivolge a un suo uomo di eccezionale fedeltà canina, quel Francesco Pionati, inventore di una Alleanza di centro devota alla Causa perinde ac cadaver (come nella formula dei gesuiti alla Santa Madre Chiesa). Ispirato profeta del Nulla fatto idea, l’altra sera si scambiava complimenti col capo dalla sala di un convegno della nuova invenzione politica. Inquadrando l’inventore sul podio, la telecamera mostrava file di occipiti senili: spettacolo farsesco quanto mai. Ma che faceva quasi tenerezza: quali manovre di persuasione suggerivano quei crani canuti e quasi implumi per staccarli dal Pierferdi nazionale, alias Casini? O arruolarli vergini di precedenti “incasinati”? Ma continuiamo con le battute premierasche. Casini? Rutelli? Che vadano a farsi benedire: “Senza di loro siamo più forti e determinati che mai, ora andiamo avanti liberi dai condizionamenti di chi stava nel centro destra, e mi riferisco a Fini e Casini, che erano lì solo per sabotare l’azione di governo”. Di balzo in balzo: Terzo polo? Ma mi facciano il piacere (sorride il Principe senza corona alla maniera del coronato Totò, principe De Curtis): Io sarei “un prodotto scaduto della prima Repubblica? Ma siete voi “un assemblaggio di spezzoni del passato”! Anzi, peggio, spiega in altra battuta al vetriolo: “Sono relitti, che si sono messi assieme in nome di un certo modo di intendere la politica”. E, per non restare nel vago, precisa: “hanno una mentalità che non è neppure in grado di capire che governare è fare, è cambiare le cose, modernizzare l’Italia”. E qui, ahimè, non ci possiamo esimere dal bisogno di lanciare uno sguardo circolare su questa nuova Italia cambiata dal fare berlusconico. Fare? Come no. Ma poco, nell’ordine civile, politico, emergenziale, e spacciarlo, sempre, in barba alle smentite fattuali e polemiche, per molto e moltissimo e risolutivo (di drammi di varia natura e tessitura: sismici, sociali, “rifiutarii”, e via enunciando). L’altro genere di cambiamento, però, è innegabile: deliziose feste goderecce con ghiotte portate di esperte donnine e di tenere fanciulle (a detta dei giudici “rossi”) anche minorenni. Ma di questo lieto fare, basti il cenno, per ora, in attesa delle novità più fresche (o, piuttosto, calde) sull’interrogatorio della Minetti sotto torchio in Procura mentre scriviamo.
L’ultima novità di peso è una lettera del premier al Corriere della sera in cui, riallacciandosi a un articolo di Dario Di Vico che sconsigliava la patrimoniale suggerita da Giuliano Amato (per “il rischio di punire solo il ceto medio”), il Cavaliere si butta a corpo morto (anzi, rivitalizzato) in una specie di dissertazione in difesa di una maggiore libertà economica come garanzia di una stimolata crescita assistita da cautela fiscale per le imprese. Naturalmente, di don Silvio c’è solo la firma: dalla prima all’ultima riga si sente la mano esperta del ministro Tremonti. Viene spontaneo ricordare una frase celebre: agnosco stylum Romanae Curiae: ma quello “stilo” era un pugnale entrato nella carne del personaggio che pronunciò la frase, quello di Tremonti (o dell’eventuale, non probabile, “chi per lui”) è un pezzo di bella scrittura: varia di proprietà lessicale, di brillante scioltezza espositiva, di salda sintassi logica (prima che grammaticale), puntuale nelle immagini e traslati in genere. Il titolo dato dal Corsera è da glamour: Berlusconi:Un piano bipartisan per rilanciare insieme la crescita”. Nel “catenaccio” una frase di tono ippico: “Mai una patrimoniale, serve una frustata per la ripresa non una botta ingiusta”. Un po’ strana (e fuori tempo massimo) appare l’appello a Bersani: “propongo al segretario del Pd di agire insieme in Parlamento”. Più calzante l’elogio della Merker e il suo raccordo con Gerard Schroeder, l’ex premier socialdemocratico: “E i risultati sono sotto gli occhi di tutti: la locomotiva è ripartita”. Tutto berlusconico, invece, sembra l’ottimismo previsionale (che, però, Tremonti non poteva respingere: noblesse oblige):”Noi, specialmente dopo il varo dello storico accordo sulle relazioni sociali di Pomigliano e Mirafiori, possiamo fare altrettanto”. Anche se non si nasconde, dice, “il problema della particolare aggressività che, per ragioni come sempre esterne alla dialettica sociale e parlamentare, affligge il sistema politico”. E non si pensi che non se ne dolga, il sensibile capo del Governo: “Ne sono preoccupato come e più del presidente Napolitano”. Ecco un “più” che si poteva evitare: ma certe concessioni all’umore di un Capo bisogna farle. Qui, dire “se son rose…” può apparire pleonastico. Perfino frivolo, visto che del Facilone di Arcore si può dire, con Terenzio: Nil est dictu facilius (“Niente è più facile che parlare”). E pure applicargli il monito di Cicerone: Ut sementem feceris ita metes (“Come avrai seminato, così raccoglierai”).
Naturalmente, lui se ne infischia di tali uccelli di malaugurio, e continua le sue esternazioni ottimistiche: il premier esclude le urne: ho avuto sette fiducie. “Ci sarebbero contraccolpi sui mercati”, Ma non teme gli avversari: tutti insieme? Ci fanno un favore. Di questo “tutti insieme” (proposta-ipotesi di D’Alema) non è convinto Di Pietro. Che usa le sue colorite metafore: “Un’alleanza costituente sarebbe come un accoppiamento contro natura”. Più diretto l’”invito” del leghista Marco Reguzzoni: “A D’Alema consiglierei di uscire un po’ dai palazzi e toccare con mano il Paese reale”. Dove si vede che anche un leghista può dire cose valide. Intanto, fra movimenti e aggregazioni più o meno effimeri e di circostanza, il Cavaliere incassa il no netto di Bertani e se ne irrita, more solito, scaricando sull’avversario la responsabilità di tutti i guasti e i rischi implosivi del “sistema Italia”.
Pasquale Licciardello

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