Il titolo fa un piccolo abuso: quel poli non indica un plurale (già insito in “sciame”) ma allude alla natura politica del sisma in corso. Insomma, si tratta di un a metafora. La scelta del diario insegue gli eventi in progress del dramma libico.
Martedì, 22 febbraio. I quotidiani rilanciano le notizie dei tg con titoloni di circostanza: Il Corriere della sera ne sventola uno lungo quanto la larghezza della (prima) pagina: Libia nel caos, bombe sulla folla (titolo) Elicotteri e aerei contro i manifestanti. I diplomatici di Tripoli: un genocidio. Berlusconi: violenza inaccettabile. Il petrolio vola, giù le borse (occhiello). Gheddafi all’ultima battaglia, centinaia di morti nelle piazze. I palazzi del regime bruciano (catenaccio). I servizi si stendono tra le pagine 2 e 13, e impegnano un drappello di ben undici autori, più un nome fittizio dietro il quale una giornalista libica trasmette un suo mini-diario degli eventi. Commento plurale. Un tragedia non si può accantonarla per darsi alla critica: neanche per un momento. Però, quel tanto di empatia che ci è consentito per deplorare le stragi, non può bloccare la risposta (culturale e caratteriale) che ci viene sollecitata dal contesto. Il “via!” alle note fa capolino già dall’abbondanza della “copertura” giornalistica di un dramma al sangue. Questa abbondanza dice che il sangue le morti le ferite eccetera, sono già metabolizzate in notizia. E l’ovvia trasposizione significa: distanza emozionale dalla carne che soffre; corsa e rincorsa perché il “nostro servizio” superi gli altri della concorrenza (o, almeno, non se ne lasci superare). L’emozione resta, ma cambia volto (e pancia). Seconda noterella (non “dei Mille”, ma dei pochi). La gara con la concorrenza spara sostantivi e aggettivi sovraccarichi di tensione: bisogna colpire il lettore, catturarlo alla trappola emotiva. In fattispecie, il sostantivo che copre tutti gli altri, infischiandosene del ridicolo, è genocidio. Si punta, è chiaro, al sistema limbico (ippocampo, amidgala, ecc.) del lettore, cioè alla sua (nostra) eredità “giurassica”. Una zona cerebrale che produce emozioni sadiche non meno che slanci trofici trasponibili in cibi meno immediati. Ci scusiamo per questo raptus di biologia culturale, e proseguiamo.
Nella foia del successo competitivo si azzardano analisi premature e giudizi orecchiabili ma incauti. Uno in primis: il popolo insorge in nome della libertà. E via alla danza sui diritti umani, i valori, la democrazia e altro bene. Una batteria di maiuscole (concetti metafisici o in bilico tra “fisica” e metafisica). Quando le rivolte della Tunisia, dell’Algeria, dello stesso Egitto sono state insignite del primo motore delle umane azioni e commozioni, la fame basale, quella del cibo fisico (sine qua non di ogni impresa, ma soprattutto della più semplice e immediata: vivere), la spiegazione appariva sobria e veritiera. Che poi si aggiungesse il risentimento verso i soliti noti della politica universale, cioè i corrotti e profittatori delle posizioni di controllo del denaro in movimento e delle sue dirette e indirette dipendenze, questa componente tanto odiosa quanto naturale, arricchirebbe la visione degli eventi di un altro tributo a madonna verità. Se quel soliti può sembrare infetto di pregiudizio, non costa molto concedere ai sospettosi cauti distinguo: purché si sappia che i distinguo sono leciti fin dove si stende la constatazione empirica, l’avallo dell’eventuale, paziente ricerca fattuale, la correlata memoria selettiva, guardinga contro ogni generalizzazione sommaria. Chi (per fare un esempio) oserebbe accusare un Prodi di corruzione mammonica? Mentre nei governi successivi e qualcuno (anzi molti) dei precedenti (della c.d. prima Repubblica), si poteva, e si può “osare”. Quanto al condizionale del verbo osare, be’, a parte il caso citato, c’è gente che osa di tutto: dalle parti di Arcore e zone associate. Come cantano notizie emergenti dai fatti e da iniziative giudiziarie in corso (o archiviate con prescrizioni propiziate da cavilli, “legittimi impedimenti” e altra zavorra puntata sui tempi lunghi della nostra malconcia Giustizia).
Entrando nel merito “stretto” del tema, un particolare emergente da uno di questi servizi giornalistici rende difficile convalidare certe genericità “valoriali” (che brutta parola!). Si legge nella corrispondenza di Sarcina (Al confine tunisino viveri e migranti bloccati dalla polizia) che l’importazione libica di cibo, (ogni sorta di generi alimentari) dalla Tunisia è stata imponente durante il “regno” del dittatore, con l’ovvio fine di garantirsi la fedeltà dei “fratelli” da Libro verde non facendogli mancare gli alimenti. Ossia, il collante primario di ogni fedeltà politica. Allora, perché la rivolta? Ecco il solito frescone “valoriale” lampeggiare dallo sguardo acceso la risposta: ma, è ovvio, per la libertà, i diritti negati, e via volando (verso l’empireo). Se agisce un movente come la rivendicazione di una più chiara democrazia nel Paese, il Popolo non c’entra. Il movimento deve avere altre radici. E magari qualche zampina esterna. Gli intellettuali, le persone istruite (per dirla in basso eloquio), i giovani politicamente reattivi sono sempre minoranze, dappertutto. Anche se cospicue e in occasionale evoluzione quantitativa. Non tutti sono disposti a perdere vantaggi materiali sperimentati per le incognite seducenti di madonna Libertà impennacchiata di maiuscola. Insomma, è presto per costruire un giudizio equo su questa tragedia. Che sembra destinata a crescere.
La quale suggerisce ipotesi divergenti dalle valutazioni correnti, taroccate, in buona parte, da pregiudizi ideologici (o altrimenti interessati). E penso al Colonnello par excellence, a quanto deve sentirsi tradito dal suo “popolo”, come deve accusare di ingratitudine i promotori interni della rivolta. Giudicando gli eventuali partecipanti popolari come dei sedotti e traditi dai cattivi maestri valoriali. Il fatto che si spari sui dimostranti significa che il popolo, come totalità coesa, non c’è in questa impresa. Che a muovere le cose siano altre figure con più complessi moventi. Che poi questi agitatori riescano a convincere anche dei popolani, è possibile. Ci sono tanti modi e variabili mezzi per subornare gli sprovveduti. E la menzogna, nello sporco giochetto, fa da primadonna: niente di più facile che subornare gente di cervello semplice, e giovani ribollenti di energie in ozio o impegnate in “imprese” non abbastanza appaganti. D’altra parte, che ne vogliamo fare dei tristi esecutori dei micidiali ordini dell’irato (e sbalordito) raìs? Sono, o no, fedeli e devoti al leader carismatico in ritirata coatta, ma avvertita come temporanea e “guaribile”? Se c’entra, nel guazzabuglio tragico, l’effetto contagio? C’entra, altro che! Macchine siamo (anche se di delicate strutture biochimiche), e come un magnete può caricare un oggetto di ferro che si trovi nel suo campo, così fra i “bipedi pensanti” tanti o pochi vengono “caricati” dalla tensione neuronale degli agitatori-agitati. E si convincono a seguirli, sognando vantaggi per lo più immaginari. Abbiano ricordato i giovani ritenuti componente più o meno decisiva della rivolta nord-africana: giusta inclusione. Perfino nell’attribuire loro un ruolo eminente. A parte l’uso dell’articolo determinativo che, se preso alla lettera, porta a inevitabili errori di valutazione. E anche internet, con i suoi siti e blog, lo scambio facile di informazioni “in tempo reale”, e imput vari, ha giocato senz’altro un suo ruolo forte. Del resto, giovani e rete sono il proverbiale binomio del secchio e la corda. Quale sia il peso distributivo di questa pluralità di componenti è presto (ripetiamo) per tentare di capirlo al meglio.
Mercoledì, 23 febbraio. Durante il giorno le notizie elettroniche si susseguono incalzanti da televisioni e internet, a conferma della gravità della situazione. Il discorso di Gheddafi ripete lo schema di questa sorta d’interventi: sono agenti stranieri ad avere acceso e ad alimentare l’incendio, sono spregevoli ratti o ingrati illusi a seguirli, insomma, è tutta robaccia da eliminare. Senza se e senza ma (come si usa dire in certi linguaggi spicci, ormai inerziali). Donde, la reazione micidialmente drastica del grande Capo e del suo inner cercle: con un esito tragico in evoluzione esponenziale. Sarà (e lo si spera) ancora esagerata la cifra di diecimila morti e centinaia di migliaia di feriti più o meno gravi (chi li ha contati? Come sarebbe possibile un controllo numerico e “ponderale” in queste condizioni di scontri e “macellazione” in corso?). Ma certo l’incremento tragico è innegabile.
Quanto alle insinuazioni di Gheddafi, onestà vuole che non si escluda del tutto un possibile gioco sporco di potenze straniere (magari non troppo lontane) che mobilitino agenti provocatori bene occultati tra il “popolo”; anzi fra la parte più reattiva del popolo, per diffondere notizie vere mescolate a montature fantasiose, ma buone ad eccitare gli animi. E non è a dire che manchino, nel corredo ideo-pratico del rais elementi disponibili a un uso esterno ostile all’assetto politico libico dell’era gheddafiana, la cosiddetta Jamahiriya. Un passaparola insistito, gonfio di dati reali (censura sull’informazione e divieto operativo di critica al regime, per esempio) e montature ideologiche è sempre un efficace strumento di agitazione a regime di feed back positivo (cioè del tipo valanga o incendio, dove l’effetto che retro-agisce sulla causa, anziché toglierle forza, gliela accresce).
Detto questo, precisiamo che nessuna simpatia ci ispira il Colonnello libico, anche se, anni fa, abbiamo reagito positivamente alla lettura del suo Libro verde, che lasciava trasparire una sorta di terza via araba al socialismo. Da quel tempo, non più vicino (quando il raìs tentava di sedurre i siciliani distribuendo il Libro verde e altro materiale tramite agenti locali ben remunerati, e magari convinti) , l’abbiamo criticato sempre per una quantità di tratti caratteriali: l’istrionismo, l’ostentazione di una diversità monumentale, l’atteggiamento profetico, l’enfasi beduinica della Tenda, la dismisura nelle pretese di risarcimento per eventi lontani dei quali è paradossale “incolpare” (de facto) le nuove generazioni, i successivi governi e le istituzioni democratiche: il colonialismo barbaro (ma chi ne conosce uno samaritano?) fu opera dell’“Italietta” giolittiana (malata delle fantasie eroico-imperialiste delle destre europee e, di riflesso, italiane) che conquistò la Libia, e del rumoroso fascismo imperiale, torturatore e stragista (anche in Etiopia), che la ereditò e ne contenne con metodi “spicci” la mai del tutto spenta Resistenza. Quando il nostro folkloristico premier montò quel monumento storico al cattivo gusto del congeniale Ospite (le parate e le sfilate-carosello dei cavalli, il goffo baciamano, la sfilata (e altre imprese più saporite e meno esposte) delle 200 selezionatissime giovani donne in pittoreschi costumi, la tenda beduina arricchita di moduli e ninnoli personali, e così via (nel chiassoso cromatismo esibizionistico) non abbiamo certo applaudito. Tanto meno agli smidollati abbracci e gesti vari di affettuosità poco “istituzionale”, alle frequenti visite reciproche, e in particolare allo zelo di patron Silvio, che va in Libia a festeggiare i 40 anni della “grande rivoluzione” che consegnò alla storia l’amico. Cioè, osserva Gian Antonio Stella, “quel golpe militare che dalla sera alla mattina buttò fuori dalla Libia, impossessandosi di tutti i loro beni per circa 3 miliardi di euro attuali, ventimila italiani […] nella stragrande maggioranza del tutto estranei ai crimini fascisti”. E che, per colmo, aggiunge Stella, “da allora, ignorati se non guardati con fastidio dagli insofferenti teorici della realpolitik, invocano [invano] che venga riconosciuta dignità al loro dramma” (Corriere, Hostess, regali e baci: l’Italia del Muammar show. Gli undici incontri di Berlusconi con Gheddafi tra il 2008 e il 2010: cammelli in dono e caroselli di cavalli berberi.
Siamo, dunque, al 23 febbraio. Il Ballarò di ieri sera ha mostrato la qualità della democrazia secondo la prassi di certi ministri del nostro governo: non abbiamo visto un solo intervento di Franceschini che non sia stato disturbato ripetutamente e pesantemente da questi campioni del sabotaggio sistematico, con l’inarrivabile Gasparri a fare (non insolitamente) da leader delle aggressioni becere.
Ma veniamo alle notizie dal fronte: sembrano più o meno tutte orientate a prevedere un immancabile successo finale della rivolta-rivoluzione. L’obiettivo fotografa in primo piano il tragico prezzo di sangue che l’inviperito rais sta facendo pagare ai ribelli. Naturalmente, ancora con scommesse d’azzardo sull’incontrollabile realtà in movimento. A questo punto, anche il nostro “pensiero” volge all’augurio del successo. E della brevità dello scontro. Ma un augurio non morde sulla realtà. E a leggere i giornali o ascoltare i servizi televisivi e di internet si è indotti a credere che tanta gente scambia il desiderio per realtà. Gheddafi si sta mostrando un osso duro e non sarà né facile né di poca spesa rimuoverlo.
Pasquale Licciardello
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