venerdì 5 agosto 2011

Le baruffe chiozzotte della politica

L’Inimitabile per eccellenza della politica nostrana, nonché premier coriaceo, dichiara che teme per la sua vita e quella dei figli perché l’ex amicissimo Gheddafi, il raìs dello storico baciamano (chiarimento per i ragazzi: è stato il Cavaliere a baciare la mano del “tiranno” libico) ha decretato e gridato vendetta tremenda vendetta a giusta (anzi soltanto perfida) ritorsione contro il tradimento dell’amico italiano, tante volte fastoso ospite nel Belpaese e poi,.con vile, e ingiustificato, voltafaccia, componente attiva nella “sporca guerra” della malconsigliata Nato contro un legittimo signore e saggio statista e il suo popolo. Le prove di tanta minaccia? Tutte da scoprire: per ora ci dobbiamo accontentare della parola del premier, cioè di un campione europeo di frottole a tutt’oggi insuperato nella pur lunghissima e frastagliata storia nazionale. Al massimo della fiducia consentita dal soggetto, possiamo soltanto immaginare una certa ansia, (più o meno alimentata da bocche interessate al brivido mediatico), scaturita dalla sua fellonia spinta, appunto, fino alla partecipazione attiva all’aggressione Nato.
         Tremonti, l’inattaccabile monumento vivente dell’onore italiano in fatto di ministri e ministeri, l’uomo delle competenze tranquille e delle severità inflessibili, nonché delle dotte citazioni (e dei favolosi guadagni) anche lui è finito nel tritacarne del pettegolezzo e delle scorrettezze. Lo prende di petto nientemeno che Sergio Romano, colonna del Corriere della sera, autore di limpidi elzeviri e titolare della corrispondenza con i lettori. Uomo di coerenza e decisione, Romano non si dice soddisfatto (placato, dirà in cuor suo Tremonti) dalla prima risposta del superministro, e lo incalza. Tremonti dice che ha cambiato alloggio (dalla caserma della Finanza alle comodità di un’ospitale dimora privata dell’amico Marco Milanese) perché nel primo si sentiva spiato. Spiato dalla Guardia di Finanza? Incalza Romano. Scherziamo? Precisi, il signor ministro, chiarisca, entri nei dettagli, il caso ha troppo peso per lasciarlo sospeso (a semplici cenni in veloce fuga). La Finanza che spia il suo capo e ministro è un bel rebus, degno di ogni approfondimento, si accomodi, o si scomodi, l’Eccellenza e dia numeri meno vaghi. e reticenti: per esempio, se il signor ministro era sicuro di questa irrituale attenzione spionistica ha fatto la sacrosanta denuncia alla magistratura? E così via. Il ministro ripete, aggiungendo un flebile mea culpa, assistito da istruzioni per il corretto uso: posso avere sbagliato (oppure, manzonianamente, “posso aver fallato”) commesso una leggerezza, “comunque nessun nero e nessuna irregolarità” . “Ho commesso illeciti? No. Errori? Sì”, compreso quello di non aver lasciato prima la casa:“L’avessi fatto, avrei evitato tante speculazioni” (così in una lettera al Corsera). E, ad abundantiam, aggiunge una spiegazione non precisamente signorile: perché avrei dovuto incantarmi alle sirene del pubblico denaro quando, di mio, sto più che bene? Non sanno, lor signori, che le mie dichiarazioni dei redditi sono milionarie ed erano miliardarie quando regnava la vetusta regina Lira? E ripiega sull’errore, la leggerezza. Si attendono ulteriori sviluppi. Che arrivano, puntuali come i tornado ai Tropici, mentre la talpa giudiziaria scava nuovi buchi e gallerie in ripresa di “colloqui” col ministro testimone. La cui posizione, di conseguenza, si rannuvola sempre più, tra menzognucce, reticenze, mezze verità sulla famigerata casa, il cui affitto il ministro pagava solo in parte. Stralciamo un passo dalla confessione del Di Lerna ai giudici: “Lorenzo Cola (consulente di Finmeccanica che lo aveva coinvolto nel giro degli appalti, anche lui ancora agli arresti domiciliari) mi disse che Proietti era il soggetto che Milanese gli aveva descritto come ‘il tipo che mi dà 10.000 euro al mese per pagare l’affitto a Tremonti’”. A sua volta Milanese ha dichiarato, a gioia di un regolare verbale, che “Tremonti gli dava 1000 euro a settimana, così raggiungendo metà dell’affitto fissato in 8.000 euro mensili”. E la storia si complica: Proietti si vanta di essere stato lui “a far avere a Milanese un appartamento del Pio Sodalizio dei Piceni”, al quale costui aggiunse “quello di via Campo Marzio”, la cui ristrutturazione, valutata, in prima stima 200.000 euro, costò, in realtà, 50.000 euro. E siccome il birbante Proietti era riuscito ad ottenere che la prima enfatica somma fosse scalata “dal canone”, il risultato fu che la ristrutturazione la fece “a titolo gratuito”. Deduzione logica della Sarzanini: “Tenendo conto che il canone annuale è di complessivi 96 mila euro, se Proietti dice il vero, per due anni quell’appartamento non è costato a Milanese e a Tremonti neanche un centesimo”. Ancora rogne e fango, dunque. E passiamo al “ricatto” che Cola avrebbe fatto a Tremonti, secondo il loquace Di Lernia: “Gli disse che se non confermava Guarguaglini alla presidenza di Finmeccanica avrebbe svelato le sue porcate e quelle del suo consigliere”. E scusate se è poco. Lo è tanto…poco, che amici e consiglieri (anche non gallonati) scendono in campo a soffiare (o gridare) consigli e suggerimenti, mentre la magistratura s’impiccia delle dichiarazioni tremontine sul presunto spionaggio (addirittura con pedinamenti!). Intanto il meteo politico va a burrasca sopra il capo del ministro, e il governo non gode di migliore salute: tra spine della speculazione a bersaglio Italia, malumori e baruffe più o meno chiozzotte all’interno della compagine (stavo per distrarmi dai tasti che volevano scrivere compagnia!), sospetti e ardori spenti tra Pdl e Lega, e altro malocchio che tacere è bello, la precarietà sembra la cifra più adatta a leggere il futuro del governo. Con buona pace del premier che annuncia un messaggio (o un più modesto discorso di circostanza) alle Camere.
Tornando al sempre caldo caso Tremonti, l’amico Berlusconi, come la prende questa disavventura del suo ministro e già amico? Pubblicamente esibisce parca e tacita (troppo tacita) solidarietà, in cuor suo è probabile che ne goda: è stato così rompiscatole, l’amico, con la sua serietà-severità! Fino ad accendere baruffe con lui, invano eminente numero uno della compagine esecutiva. Forse il ministro conserva un po’del moralismo di quand’era deputato del Patto Segni – avrà pensato don Silvio. Certo è che pare difficile dissentire dalla “raffigurazione” umoristica di Giannelli. Vignetta di ieri, primo agosto: un Berlusconi al ristorante, un Alfano in cravattino (entrambi a mezzo busto) che domanda (nel titolo) “Il signore desidera?”, e il Berlù che ordina un “Tremonti alla milanese, impanato e fritto”, due Tremonti a figura intera su due piani verticali, il primo sopra un letto, il secondo dentro un padellone sul fuoco, avvolti nella classica nube del desiderio figurato.
A proposito di consigli (non richiesti), il moralista Giuliano Elefantino Ferrara, in un’intervista al Corriere, si dice sorpreso del comportamento di Tremonti (evidente l’idealizzazione precedente la sorpresa!), e, generoso com’è, distribuisce pareri e consigli: ha peccato di “ingenuità e sciatteria, ora è necessario che si scusi”, anzi che “dia le dimissioni”, ma altrettanto conveniente è che “Silvio le rifiuti!”. Infatti, “questa vicenda non fa comodo a Berlusconi. La corrosione del ministro dell’Economia non conviene al governo”. Ipse dizit. Ma intanto il caso è tutt’altro che chiuso o avviato a chiusura. Il citato Corsera ostenta un Tremonti grande tra due titoloni poco idilliaci: Tremonti e il caso Capaldo, io completamente estraneo (estraneità non ancora dimostrata), il secondo: “Milanese si accordò per gonfiare i lavori fino a 400 mila euro”. I pm. Patto in cambio di appalti. Baruffe più fragorose coinvolgono altri nomi e personaggi raccolti attorno alle vicende di mazze e mazzette sugli appalti Enav e Finmeccanica. Il sommario del Corsera citato condensa l’ampio servizio di Fiorenza Sarzanini (pg. 3) in queste righe gonfie di palpiti: Nei verbali accuse a cinque politici (titolo). “Tommaso Di Lernia, il costruttore agli arresti per aver pagato la barca a Milanese in cambio di appalti, accusa altri tre politici di centrodestra e uno dell’Udc di aver preso tangenti per l’assegnazione delle commesse di Enav e Selex. Uno di loro è Aldo Brancher. Gli altri nomi sono ancora secretati. Di Lernia parla anche del ministro dei Trasporti Altero Matteoli come ‘politico di riferimento per le aziende che operano a Venezia’”. Ulteriori espansioni dei casi aperti rompono gli ultimi freni e le baruffe inveleniscono ben al di là delle goldoniane chiozzotte, liberando malumori e risentimenti che sciolgono lingue svelte e perfino biforcute: un vero gioco al massacro delle reputazioni meno sospettabili. Ne piovono ancora per Tremonti. Un titolo del Corsera (2 agosto) recita: Critiche e nuove difficoltà. L’isolamento del super ministro: Sopra il titolo, un occhiello-allarme: “Fronti aperti” [in rosso] “Il cavaliere non esclude la possibilità di assumere l’interim dell’Economia”
         Dopo, e dietro, le piogge a grandine sulle teste della florida Destra, troppo inclini al gusto del denaro facile e al disprezzo delle noiose regole, ecco un rovescio anche sopra una testa di sinistra, sopra un Penati di lunga e (alla pacifica apparenza) limpida carriera, che pesa sul groppone del “commilitone” e segretario Bersani. Tangenti, regalini, concessioni e licenze per lavori pubblici ben compensate in varietà di doni e finanziamenti al Partito un tempo comunista, oggi, di gradino in gradino, disceso al semplificato Partito democratico (en passant, nomen banale e di cattivo gusto: imita lo Straniero e offende gli altri partiti: che, non siamo democratici noi?) con trucchi, “triangolazioni” e finzioni varie. E qui si scatena un coriaceo moralista di fresco conio, e ispirazione, che non la perdona neanche ai santi, non accoglie attenuanti e chiarimenti, va giù a testa dritta e corna di toro, livellando al peggio ogni trasgressione, anche minima e di problematica conferma documentale. Specialmente quella dei suoi ex compagni: stiamo schizzando il profilo legnoso di Antonio Polito, un Savonarola inflessibile. Che, come tale, non si dichiara soddisfatto da nessuna ammissione e chiarificazione di Pier Luigi Bersani, da nessuna -per dettagliata che sia-, spiegazione e correttezza comportamentale. Un test di cotanta vocazione può essere il suo editoriale sul Corsera del 27 luglio, tema “Il Pd e la questione morale”. Titolo: Quel che Bersani non ha scritto. Scritto, dove? In una lettera sul Corsera, in cui il segretario Pd enuncia a chiare lettere che la presunta “diversità genetica” del Pd, ed ex Pci  “non esiste più”, e viene sostituita da una auspicata “diversità politica” affidata a regole rigorose “contro la tentazione di rubare” (che servirebbe per tutti i politici, a prescindere dalla diversità di militanza). A cominciare da una legge sulla “responsabilità oggettiva: chi sgarra perde i soldi pubblici” Per un lettore non prevenuto contro questi peccatori si accontenterebbe di questa pacata essenzialità, ma non Polito. Che, tignoso, attacca: “Detto questo, Bersani si ferma ben al di qua di ciò che servirebbe per restituire al Pd l’onore politico compromesso dai casi Penati, Pronzato e Tedesco. Nella sua lettera manca infatti ogni accenno autocritico”. Ma una lettera non può dare fondo all’intero universo comunicativo. E “accenno autocritico” può benissimo “presenziare” restando implicito e sottinteso. Quanto ai suggerimenti di Polito sull’esclusione dei politici da cariche aziendali in enti pubblici, be’, se ne può’convenire, ma perché avrebbe dovuto occuparsene Bersani in una lettera circoscritta a temi ben delimitati? Quanto alla domanda retorica seguente, niente da obiettare: “E non sono forse migliaia gli enti e le aziende pubbliche i cui cda esistono al solo scopo di assicurare poltrone e affari ai partiti?” Niente, salvo sottolineare in negativo l’enfasi di quel migliaia e di quel “solo scopo”. Articolo di spalla sulla “questione morale” (Corsera del 29 luglio), clamante fin dal titolo perentorio, Quel che non torna nella difesa di Bersani. Non tornerebbe la sua presentazione, da ministro, dell’imprenditore Gavio al compagno Penati, nel 2004 presidente della provincia di Milano. Striderebbe, a suo pignolesco dire, questa autodifesa: “Il ministro delle attività produttive conosce tutti i principali imprenditori italiani. Li conosce, non li sceglie”. Manco avesse consumato un omicidio! Era obbligato a prevedere la dubbia correttezza del Penati? Bé, non ha imparato ancora a essere indovino.
         Pasquale Licciardello

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